Presentato alla Festa del Cinema di Roma nella sezione Alice nella Città, Come quando eravamo piccoli è il debutto alla regia dell’attrice Camilla Filippi, che firma un documentario autobiografico dedicato alla propria famiglia. Al centro delle immagini troviamo lo zio Gigio, nato con una lesione cerebrale da forcipe che lo ha reso ipovedente. Nel racconto, che affonda in riflessioni dedicate alla famiglia e alla memoria, seguiamo Gigio mentre si prepara ad andare in pensione dopo oltre 40 anni di lavoro agli Spedali Civili di Brescia, scoprendo il rapporto con la regista e non solo. “L’arte parte da una necessità”, ci ha raccontato Filippi spiegando le origini del progetto. Una necessità personale che affonda le radici nella propria storia, ma che grazie alla potenza dei rapporti umani messi in scena arriva subito al cuore dello spettatore. “L’espressione artistica, a un certo punto, parte dalle tue origini, da quello che è dentro di te – prosegue Filippi -. Da lì non puoi scappare. Io per tutta la vita ho cercato di fuggire dalla mia famiglia, ma alla fine mi sono accorta che tornava sempre. Alla fine sono scappata per tutta la vita, ma le difficoltà umane mi attraggono più di qualsiasi altra cosa al mondo”.
L’attrice esordita alla regia – già alle prese con un nuovo film – scherza sul tono scelto per il proprio debutto, che la vede occupare le inquadrature assieme allo zio. “Vorrei essere un po’ più leggera, avere un attimo di respiro, ma non ce la faccio. Sto lavorando a un altro film di finzione dove non sarò interprete, ma solo regista, perché ho capito, durante questo film, la bellezza che risiede nella differenza tra i due ruoli. Essere regista significa raccontare quella storia, non interpretarla, ma raccontarla, tradirla, inventarla. Questo mi ha colpito molto e mi è piaciuto. Sto scrivendo questo film di finzione che ruota sempre attorno a questo mondo dal quale vorrei scappare, ma che ho deciso di abbracciare”.
L’incontro tra la regia e il parente regala momenti inaspettati, a volte buffi, ma molto più spesso commoventi. In una sequenza ambientata in una Mostra d’arte contemporanea, è un siparietto dedicato a Warhol – Gigio ha da ridire sul tratto del pop artist – a introdurci verso uno dei momenti più toccanti, vero incontro tra i due. A livello drammaturgico, Gigio non cambia. La sua vita è quella, ma cambia la nostra percezione e della famiglia. “Lui mi perdona in un certo modo – spiega Filippi -, con il suo silenzio, e io capisco che non sono una persona orribile per aver scelto la mia strada”. Per catturare la genuinità dei momenti trascorsi con lui, Filippi ha girato il documentario con una sola macchina da presa, riducendo al minimo le distrazioni. “Io sono arrivata sul set con un copione che avevo scritto, ma essendo un documentario puoi solo sperare che succeda quello che avevi immaginato. A volte è successo, a volte no. Quello che ho cercato di fare è stato porre le domande giuste nei momenti giusti, e sapevo che rimanendo in silenzio qualcosa sarebbe successo inevitabilmente. La scena con Andy Warhol è stata incredibile. Non gli ho riso in faccia perché volevo rimanere seria, ma poi lui si è seduto e ha fatto un bilancio della sua vita che mi ha lasciato senza parole”. Momenti di realtà permessi dal mezzo cinema, che ha regalato all’uomo un’attenzione mai ricevuta. “Ha una consapevolezza che non mi aspettavo, ed è stato proprio nella magia del cinema che si è aperto di più. Lì ho imparato a stare molto più in silenzio, permettendo a lui di vivere”.
Centrale nella riflessione proposta dal film anche il ruolo della memoria, che si manifesta in un continuo uso di diapositive, filmati di famiglia e materiali personali messi a schermo o mostrati come oggetti fisici passati di mano in mano da una generazione all’altra. “A livello visivo la diapositiva, o anche il VHS, ti fanno sentire il tempo che passa. Sono molto più toccanti e sono molto più belle da inserire all’interno di un racconto che è anche visivo e quindi ha delle necessità. Mia madre è mancata vent’anni fa, e rivedere una persona che parla dopo vent’anni è stato molto toccante, ma anche divertente. Io credo molto nella memoria. Credo che la famiglia sia importante e che dobbiamo tornare a quando eravamo piccoli, guardare quel mondo con occhi da adulti per cercare di capire meglio noi stessi e come relazionarci con gli altri. La memoria è fondamentale, è una memoria storica, privata ma storica, e la memoria storica è l’unica cosa che non dobbiamo perdere, altrimenti rischiamo di finire come stiamo finendo ora”.
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