‘Balentes’, Columbu: “Grazie alla pittura sono rinato dopo una profonda crisi”

Mostrato al 38mo Bolzano Film Festival Bozen, l'ultimo film dell'autore sardo è un evocativo esperimento in animazione


BOLZANO –  Balentes, quarto lungometraggio di Giovanni Columbu, primo in animazione, è un’opera che fonde memoria familiare, poesia visiva e una profonda riflessione sulla cultura sarda. Columbu l’ha ideata dopo Su Re, un film tratto dal Vangelo a cui ha fatto seguito una profonda crisi, economica e personale. Da qui, il regista sardo si è guardato dentro, ripercorrendo i ricordi d’infanzia e il suo passato come artista, prima di tutto da pittore. Il risultato è un film dallo stile pittorico intenso, in cui la lingua sarda, attraverso dialoghi e cartelli, dà identità a spazi e luoghi evocati da pennellate che tracciano i contorni irregolari della tradizione orale. Il racconto, infatti, è tratto da una storia vera raccontata a Columbu da sua nonna, quando era ancora un bambino. Ambientato nella Sardegna del 1940, alla vigilia della Seconda Guerra Mondiale, il film racconta il furto di cavalli da un allevamento militare compiuto da due giovani, Ventura e Michele, mossi forse da un desiderio di avventura o da un ideale di “balentia”, la virtù cavalleresca sarda. Balentes si dipana come una ballata popolare, intrecciando il dramma di una fuga tragica con un’estetica pittorica materica, realizzata con tecniche tradizionali simili al rotoscopio. In queste immagini graffiate, dipinte un fotogramma alla volta, Columbu unisce la storia di famiglia e la cultura di una terra, mediando il tutto da un uso euforico e coinvolgente di riferimenti alla storia del cinema. Dai cavalli di Muybridge ai treni dei Lumiere, passando per Dreyer e oltre; le radici di un’umanità premoderna si mischiano alla storia delle immagini, dando vita a un poema visivo che è al contempo intimo e universale.

Il suo primo film animato si caratterizza per un marcato stile pittorico. È stata un’occasione per riscoprire le sue origini di artista visivo? Perché ha deciso ora di tentare la via dell’animazione?

Sì, disegnavo e dipingevo prima di scoprire il cinema. Negli anni ‘70, a Milano, con ex compagni del liceo artistico, ho realizzato alcune mostre di successo sulla manipolazione dell’immagine. Abbiamo esposto alla Rotonda della Besana, alla Triennale, al Palazzo del Grecchetto, a Mantova, fino alla Biennale, coinvolgendo critici autorevoli come De Michelis ed Eco. Non avevo mai fatto animazione. Dopo Su Re, il mio film sul Vangelo, ho vissuto due anni difficili: debiti per la produzione autofinanziata, problemi amministrativi, non avevo niente per vivere. Una zia mi ha aiutato, ho venduto tutto. Come altri registi, anche più noti, ho affrontato i rischi economici del fare cinema. In quel periodo, disegnavo fino a notte, era una specie di tunnel utile a restare in piedi. Ho fatto mostre a Milano e Cagliari, vendendo anche disegni giovanili legati al Vangelo, mai mostrati in Su Re. Da lì è nato questo film.

Balentes nasce da un fatto realmente vissuto dalla sua famiglia e tramandato a lei da sua nonna. Ha sempre desiderato raccontarlo o ci è tornato con la mente in quel momento di crisi dopo Su Re?

Non pensavo di farci un film, di certo non quando mia nonna mi raccontò la storia, ma senza dubbio mi colpì: un ragazzo idealista, romantico, forse ingenuo, ruba cavalli da un allevamento militare, riesce nell’impresa con un compagno, ma viene ucciso dalla milizia. Per la sua famiglia, benestante, era una vergogna, una macchia da non nominare, un senso di colpa. Ma non ho mai condiviso questa vergogna: vedevo in quella storia una passione per i cavalli, tristemente destinati alla guerra, e una sfida idealistica, non un crimine. La storia è rimasta sempre con me.

Vede oggi giovani romantici idealisti quelli del film o da questo punto di vista il suo racconto non comunica col presente?

Il film è fuori dagli schemi delle piattaforme, difficile da cogliere senza un accompagnamento. Pensando a mia figlia e ai giovani, vedo che preferiscono film mainstream. La mia è un’esplorazione del passato, con richiami sperimentali, che può risultare lontana dal pubblico attuale, ma richiede un lavoro per essere compresa.

A proposito dei richiami sperimentali, nel film lei ripercorre attraverso l’immagine più di 100 anni di storia del cinema, richiamando elementi emblematici come i cavalli fotografati da Muybridge e il treno dei Lumier. Come si è inserito tutto questo nell’adattamento di un ricordo di famiglia

Non conoscevo l’animazione, così sono partito da Muybridge, riproducendo in pittura i suoi 12 fotogrammi di cavalli per capire il movimento. La fotografia, come dice Benjamin, rivela ciò che l’occhio non vede: un cavallo in corsa può sembrare avere due o tre zampe, una percezione antinaturalistica. L’animazione nasce dalla fotografia, che coglie l’inatteso oltre le aspettative. Ho esplorato a ritroso, perché come dice Asimov: la conoscenza avanza, ma dimentica saperi antichi e precedenti. Muybridge anticipa il bullet time di Matrix: dispone macchine fotografiche su binari lineari, scattando in sequenza mentre un cavallo corre, annullando lo spazio e mantenendo il tempo, un effetto artigianale ma simile a un camera car moderno. Mi interessavano questi aspetti e mi hanno permesso di comprendere l’animazione nel profondo, guardandomi indietro, nella mia storia e in quella del cinema.

Come ha lavorato dunque sull’immagine? Partiva da storyboard oppure ha portato il suo metodo creativo maturato con il live action all’interno di questa storia?

Non sopporto i metodi produttivi che standardizzano i segni, con disegnatori scelti da produttori senza libertà. Nei miei film, come Su Re, tenevo io la cinepresa per cogliere autenticità, anche se pesava 15 kg. Non voglio inquadrature perfette: voglio mostrare, accogliendo imprevisti, come qualcuno che mi urta. Alla seconda unità di ripresa non dico mai cosa accadrà, per catturare momenti unici, come in un documentario.  Allo stesso modo, nell’animazione, ho fatto tutti i segni da solo, senza storyboard, con disegni preparatori liberi, a volte intensi, sofferenti. Uso la bellezza convenzionale per sdoganare la bruttezza, che incontra lo spettatore senza compiacimento.

E in tutto questo si inserisce l’identità sarda, che appare nei cartelli che scandiscono il racconto e nella lingua dei personaggi, nonostante le immagini sembrino ospitarci in un luogo universale, senza riferimenti. Quanto è stato importante per lei, anche qui, riflettere sulla storia della Sardegna?

Ho creato spazi astratti—montagne realizzate con spugne o una  singola pennellata—ma lingua sarda e cartelli radicano la storia. La Sardegna vive il conflitto tra tradizione e una modernità subita, fraintesa. La Sardegna è dentro il conflitto tra tradizione e modernità, subita più che reinventata, a differenza di luoghi come il Giappone, dove è stata reinterpretata in maniera personale. I sardi sono aperti alla modernità, ma perdono i propri codici, fraintendendo i nuovi. La lingua sarda e i cartelli danno identità a spazi metafisici. La vendetta di cui parla il film, però, sembra inserirsi in una tradizione sarda, ma è universale. In Sardegna, è una dimensione antica: senza autorità, la vendetta è inevitabile per sanare ferite gravi. Dovremmo parlare di più, di questi temi. Spesso li fraintediamo, come il concetto di perdono cristiano: solo nel Vangelo di Luca Gesù perdona un ladrone, quello che lo chiede, non entrambi. È un tema su cui riflettere.

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13 Aprile 2025

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