Due tredicenni che sono due autentiche scoperte – Eden Dambrine e Gustave De Waele – sono i protagonisti di Close, del belga Lukas Dhont, 31enne reduce dalla Caméra d’Or per il suo debutto Girl nel 2018. Il film è un rivale di Nostalgia di Mario Martone nella corsa per la nomination agli Oscar, ha prestigiose candidature agli Efa e ha vinto il Grand Prix di Cannes 2022. Ora arriva in sala dal 4 gennaio con Lucky Red e smentisce la ‘maledizione’ dell’opera seconda per la sua capacità di andare in profondità, emozionare e lasciare aperte molte domande: un film sconvolgente ma senza perdere mai la misura.
Forte è il tema dell’identità sessuale di un giovane uomo in trasformazione, con il meccanismo del coming of age. Siamo in una villaggio della campagna belga dove facciamo la conoscenza con due ragazzini, Remi e Léo, allievi della prima media. Molto uniti vivono serenamente tra giochi infantili e corse in bicicletta, chiacchierate fitte e notti passate nello stesso letto, Léo aiuta i genitori nel lavoro dei campi, Remi studia l’oboe. Si adorano e sono inseparabili, ma quando le compagne di scuola insinuano che tra i due ci sia una storia d’amore, Léo comincia a respingere l’amico del cuore, a non voler essere etichettato come gay. O forse si rende conto che Remi prova per lui qualcosa di più, anche un’attrazione fisica che si esprime nella lotta.
L’allontanamento, voluto solo da una parte, produce un esito tragico, purtroppo non raro nelle crisi adolescenziali, ma che arriva comunque come un pugno in faccia per lo spettatore come per i protagonisti originando una cesura nel film la cui seconda parte è dedicata a esplorare la reazione al dolore e alla colpa dei teen agers ma anche degli adulti e la possibilità di perdonare e curare ferite apparentemente insanabili.
Nel cast tutto appropriato c’è anche Emilie Dequenne (la Rosetta dei Dardenne) nel ruolo della madre di Remi, un personaggio che si muove tra empatia e rabbia su corde molto sottili. “Penso che in un certo senso Close sia una continuazione dei temi di Girl – afferma Dhont – ma è anche un film totalmente diverso. C’è infatti una rottura. Certo, l’identità è ancora un tema centrale, ma declinata questa volta più nei confronti dell’amicizia, dell’intimità e della responsabilità”.
“Girl – prosegue il regista – è stata un’esperienza stupenda, per me era la prima volta in tutto, ma subito dopo quel film, e i tanti riconoscimenti vinti, mi sono trovato davanti una pagina bianca e tanti dubbi. Girl era basato su un’intuizione e una sicurezza interiore che avevo perso, ora ero più cosciente dello sguardo degli altri su di me. Volevo ricreare la stessa intensità e passione, ma non sapevo come. Allora sono tornato nel villaggio dove abita la mia mamma, sono tornato nella mia scuola media. Io faccio i film per il bambino che sono stato e mia madre mi ha sempre incoraggiato, è lei che mi ha regalato la prima macchina da presa ed è stata la mia prima attrice quando avevo 12 anni. Anche stavolta si è detta sicura di me e mi dato fiducia”.
Sul lavoro con gli adolescenti, trovati con un casting aperto a giovani sia di lingua francese che olandese o tedesca, racconta: “Lavoro molto alla preparazione. Cerco di conoscere i miei attori, mangio con loro. Con i ragazzi è importante non mettere loro troppe parole in bocca ma farli parlare con la loro lingua e limitarsi a dare una coreografia. Bisogna dare loro la libertà di esistere e di essere veramente. E poi è importante dirigere gli attori adulti che interagiscono con loro e che diventano le loro guide, in qualche modo. Per esempio a Léa Drucker, che interpreta la mamma di Léo, ho dato una indicazione fondamentale: lo devi amare, deve sentire il tuo amore”.
Nel film un ruolo importante è riservato allo sport praticato da Léo, l’hockey sul ghiaccio, quasi una metafora della capacità di prendere colpi molto duri – a un certo punto il ragazzo si frattura un braccio – ma sapersi rialzare in piedi e riparare. E nella scena della frattura il padre di Léo esprime una grande dolcezza, come anche il padre di Remi, quando, in un’altra sequenza, piange per il figlio. L’umanità degli attori è insomma centrale in questo film. “Un uomo che esprime le proprie emozioni è ancora piuttosto raro, ma la tenerezza è davvero la parola chiave – spiega Dhont, che ha tra i suoi punti di riferimento I 400 colpi di Truffaut – C’è tenerezza tra i due ragazzi, che vediamo dormire insieme, c’è tenerezza tra Léo e suo fratello maggiore che lo abbraccia. Noi non siamo abituati a questi gesti. Ho letto una ricerca americana condotta su ragazzi da 13 ai 18 anni. A 13 parlano dei loro amici con amore, condividono tutte le loro emozioni, poi via via perdono il lato emotivo per affermare un’idea di mascolinità”.
E sul suo metodo sul set racconta: “Ogni scena, ogni dettaglio, ogni colore è stato meticolosamente preparato, mentre i due ragazzini protagonisti non hanno fatto alcuna prova, per nessuna scena. Così il film ha cercato di restituire autenticità e verità come se una troupe di documentaristi capitasse sul set di una fiction”
Infine una riflessione sulla fluidità: “Oggi le nuove generazioni di giovani cercano di destrutturare quello che appartiene alla società patriarcale, di rompere gli schemi delle categorie, dei generi, di interrogarsi sulla mascolinità secondo cliché, per questo le definizioni sono più fluide, ma quanto siamo intimamente preparati a questo?”.
Metti piede a Berlino e ti scopri a pensare che qui la storia ha lasciato profonde cicatrici sul volto della città. Ferite rimarginate eppure che non smettono mai di evocare....
L'attrice torinese è la protagonista dell'opera prima di Giuseppe Garau, che sarà presentata al Lucca Film Festival 2023 come unico titolo italiano in concorso
L'attrice 24enne, tra i protagonisti di La bella estate di Luchetti e La chimera di Rohrwacher, spiega a CinecittàNews di essere felice dello spazio che è riuscita a ritagliarsi nel cinema d'autore
L'attore pugliese, 34 anni, racconta a CinecittàNews la sua esperienza nella saga cinematografica campione di incassi e nel film di Michael Mann