Claudio Del Punta: racconto la schiavitù moderna


Una piaga sociale di un paese lontano da noi, ma non poi così tanto come sembrerebbe. Lo zucchero che arriva sulle nostre tavole viene quasi tutto da lì, e quelli tra noi che possono permetterselo, è lì che vanno a godersi una rilassante vacanza di lusso. Ma l’altra faccia della Repubblica Dominicana è quella di un paese che ospita una tra le più atroci forme moderne di sfruttamento: centinaia di migliaia di haitiani che, fuggiti dalla miseria e dalla dittatura di casa loro, sono ridotti a lavorare come schiavi nelle piantagioni di canna da zucchero gestite dalle multinazionali occidentali o dallo Stato. E’ ciò che racconta Haiti chérie, il film di Claudio Del Punta che il 60° Festival di Locarno (1-11 agosto) ha selezionato per il concorso ufficiale. Lo fa attraverso le vicende personali di una coppia haitiana che lavora nei “batey” – i recinti in cui vivono i lavoratori della canna da zucchero – che perde un figlio per denutrizione e cerca una via d’uscita da condizioni di vita disumane insieme a un medico e a un adolescente. Prodotto da Esperiafilm e girato in digitale con appena 250mila euro, Haiti chérie è frutto di riprese fatte sul luogo tra il dicembre ’05 e il marzo ’06, come racconta a CinecittàNews il regista.

Come è nata l’idea di rappresentare un mondo così lontano?
Volevo raccontare una di quelle storie che è impossibile vedere in tv. Credo che il cinema debba occuparsi sempre di più, e sempre meglio, di vicende vere, anche se accadono in luoghi lontani e apparentemente slegati dal nostro mondo. E poi mi interesso da anni della cultura del Centro America. Ho girato dei documentari a Cuba e Santo Domingo, e lì sono venuto a conoscenza di questa situazione. Quindi ho iniziato a intervistare le persone che lavorano nei “batey”, ho scritto la sceneggiatura e sono partito.

Haiti chérie porta alla luce anche il forte contrasto tra un luogo di schiavitù e il paese delle vacanze “dei ricchi”.

Cinque milioni di turisti all’anno arrivano nella Repubblica Dominicana per godersi una vacanza nei resort di lusso, ma a solo mezz’ora dalla spiaggia c’è una situazione terribile, che ci riporta indietro all’800. Migliaia di persone che sopravvivono con 3 o 4 dollari al giorno, senza identità giuridica e tutela sindacale, ammassati in capanne senza acqua, luce e servizi igienici. E non possono fuggire perché non hanno i soldi per farlo: è una gabbia senza via d’uscita.

 

I protagonisti del film sono attori haitiani non professionisti. Potranno essere anche loro a Locarno?
Purtroppo no, non hanno passaporto e non possono uscire dal paese. So che non sono nemmeno mai entrati in una sala cinematografica, lì non ce ne sono. Credo che l’Europa dovrebbe fare qualcosa per porre fine a questo orrore umano: lo Stato italiano dovrebbe almeno informare i turisti sul luogo scelto per la vacanza o, ancora meglio, applicare delle sanzioni.

Avete avuto problemi di sicurezza nel girare?
I militari ci hanno cacciato due volte dalle piantagioni, e molte riprese abbiamo dovuto farle di nascosto. Per me che sono bianco e occidentale i problemi erano relativi, ma per gli attori, che vivono e lavorano nei “batey”, il pericolo era grande.

Come ha coniugato l’aspetto documentaristico con la parte narrativa?
Ho cercato di rappresentare la realtà senza manipolarla, ma nello stesso tempo di costruire una storia che potesse dare delle emozioni. Ho innestato la narrazione cinematografica su uno sfondo realista.

Dopo Locarno, il film uscirà in Italia? Ha altri progetti in cantiere?
Non c’è, e purtroppo credo che non ci sarà, una distribuzione italiana, ma Haiti chérie è già stato comprato dalla francese Pierre Grise Distribution. Nel prossimo futuro vorrei girare un film musicale su Cuba, combinando il racconto sociale con l’intrattenimento, e poi una storia che racconti l’esperimento di Evo Morales, l’attuale presidente della Bolivia, paese dove l’estensione dei diritti e degli incarichi istituzionali agli indios ha generato un grande entusiasmo, una vera carica energetica.

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11 Luglio 2007

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