Christopher Clark è – o meglio, era – un difensore ecologico distintivo, un eco-guerriero scozzese al di fuori degli schemi convenzionali. Nel cuore dell’impenetrabile foresta amazzonica, ha eretto il proprio Punto d’Avanzamento del Progresso, creando un modello di società utopica, come Harrison Ford in Mosquito Coast o Viggo Mortensen in Capitan Fantastic.
Questo modello si basa sull’armonioso bilanciamento tra le forze della natura e l’ingegno tecnologico, amministrato e custodito dalle popolazioni autoctone della giungla stessa. Tuttavia, la situazione si deteriora progressivamente ogni anno che passa, e una nuova e vasta fiammata minaccia di annientare l’intero Avamposto. In risposta, Chris intraprende una scommessa ardita. Per fronteggiare la straordinaria devastazione che la foresta subisce, egli concepisce un piano altrettanto impressionante: organizzare un concerto dei Pink Floyd in mezzo a questa giungla lussureggiante e al contempo infernale. L’obiettivo è persuadere il governo brasiliano a stabilire una riserva naturale in quella regione.
Questo racconta L’Avamposto di Edoardo Morabito, coproduzione italo-brasiliana Dugong Films con Rai Cinema in associazione con Intramovies, O2 pòs producoes e Bidou Pictures, distribuito da Luce Cinecittà.
Il film passa alle Giornate degli Autori.
Perché proprio i Pink Floyd, viene da chiedersi, e non una band attualmente in attività, o una qualsiasi pop-star che avrebbe potuto attirare anche più attenzione sulla questione?
“Il sogno è il sogno – risponde Morabito – Chris amava la band alla follia, e poi dopotutto sono il gruppo dei “concerti impossibili”, pensiamo al live a Venezia. E mi rendo conto che c’è un paradosso perché un concerto dei Pink Floyd nel cuore dell’Amazzonia avrebbe avuto un impatto ambientale devastante, ma era anche una questione generazionale, la psichedelia, l’apertura all’universo. Il fatto che non fossero in attività era secondario, tanto non sarebbero mai arrivati e Chris lo sapeva”.
Il film nasce quasi per caso: “avevo vinto il festival di Torino – continua Morabito – e cercavo una storia, magari è poco poetico ma c’era un bando con il ministero della cultura brasiliano e da lì sono partito. Chris mi è stato proposto dal mio produttore e ne sono rimasto folgorato leggendo due articoli di giornale. Gli ho scritto, l’ho incontrato e ci siamo trovati in sintonia sul nostro modo di vivere molto rock n’ roll. Le nostre istanze poetiche coincidevano, nata un’amicizia”.
La foresta amazzonica è affascinante e il film le rende giustizia, ma anche spaventosa, tanto che viene definita “inferno verde”, come nell’horror cannibalistico di Eli Roth, The Green Inferno: “se hai contezza della tua misura rispetto a lei – dichiara Morabito – la natura non può che essere spaventosa, è un luogo primigenio, esisteva prima di Adamo ed Eva ed è una foresta veramente vergine. Per me che ho viaggiato poco fuori dall’Europa era parte dell’avventura e del fascino di questo progetto. Per spostarmi mi sono messo nelle mani di Chris, abbiamo viaggiato lungo il fiume per ore, mi sono sentito veramente un puntino”.
Chris, come racconta il documentario, muore prematuramente, ma almeno vede il suo sogno realizzato: “E’ stato doloroso – spiega ancora il regista – se ne è andato mentre cercavo di mettere il film su produttivamente, e questo ha bloccato il progetto per molto tempo. Il pensiero di lui però continuava ad accompagnarmi. Era come se ancora ci fosse e mi aspettasse dall’altra parte del mondo. Una notte ho riaperto l’hard disk e guardando il materiale ho capito che il film si poteva riscrivere, anche se sarebbe stato diverso da come lo avevamo concepito. E’ diventato un classico percorso in tre atti dove la conclusione è amara, però Chris ha avuto comunque la sua vittoria, perché la riserva viene infine istituita, anche senza l’apporto dei Pink Floyd.
Nonostante possa apparite come un personaggio controverso, Clark è, secondo Morabito “un eroe larger than life. Ha vissuto per un sogno e un ideale e lo ha portato a compimento con una dinamica molto umana, l’ho sentito affine per tutto il tempo, la sua follia, per quanto potesse mostrare ombre, era genuina e positiva. Era un grande intellettuale, uomo colto, traduttore di enciclopedie, grafomane, gran lettore. Le accuse che gli sono state rivolte, di bio-terrorismo, erano tutte pretestuose, dovute al fatto di essere un gringo nella foresta. Per lui contava la salvaguardia della stessa, ed era riuscito a mettere su un progetto sostenibile con la collaborazione di tutte le popolazioni lungo il fiume, non solo i meticci – che occupano un posto ambiguo, spesso sono stati usati per compiere massacri quando qualcuno voleva mettere su un’autostrada che passava per una riserva – ma anche gli indigeni, che sono i veri proprietari e detentori del luogo. Chiaro che questo andava in contrasto con le mire di vari governi, i cui interessi erano economici: estrazioni minerarie, pascoli – a cui la terra amazzonica non è adatta – coltivazioni di soia, industrie. Fortunatamente ora Lula si sta muovendo in maniera diversa”.
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