Chiara Bellosi: “Una fiaba nera piena di paillettes”

Chiara Bellosi torna a Berlino due anni dopo Palazzo di giustizia con Calcinculo. Il film, prodotto da tempesta con Rai Cinema, è distribuito da Luce Cinecittà dal 10 marzo


Una storia d’amore e di amicizia, di crescita e trasformazione, “una fiaba nera come il fitto della foresta, ma col sentiero seminato di paillettes”, come la definisce la regista Chiara Bellosi, che torna a Berlino due anni dopo Palazzo di giustizia (Generation 14+) con Calcinculo. Il film, prodotto da tempesta con Rai Cinema e distribuito da Luce Cinecittà (nelle sale a partire dal 10 marzo), viene presentato nella sezione Panorama.

Lo script, che si è aggiudicato il Premio Franco Solinas Miglior Sceneggiatura 2018 e la Borsa di Studio Claudia Sbarigia 2018 dedicata a premiare il talento nel raccontare i personaggi e l’universo femminile, ha al centro Benedetta (Gaia Di Pietro), 15enne che vive un rapporto conflittuale con la madre (Barbara Chichiarelli): la ragazza è sovrappeso e nella prima scena la vediamo dal medico, dove la mamma, angosciata, l’ha portata per farle prescrivere una dieta che non funziona proprio.

Decisivo, in questo coming of age, dai toni molto delicati, sarà l’incontro con Amanda (Andrea Carpenzano), che riesce a portare Benedetta fuori dal cerchio familiare asfittico, in una realtà, quella dei circensi girovaghi, in cui l’identità si crea giorno per giorno. “Questa storia è una fiaba – dice Chiara Bellosi – Per me la favola è sempre rimasta qualcosa di un po’ triste e asciutto e barboso, con la sua morale inesorabile in chiusura. La fiaba invece è come un universo che si espande e raccoglie tutto quello che trova per strada: oggetti insensati, personaggi strambi, posti pieni di fascino ma sempre un po’ inquietanti. La fiaba tiene tutto insieme e racconta, non spiega”.

I due personaggi sono fuori da ogni schema, sia l’adolescente Benedetta che Amanda, che possiamo definire una persona non binaria. Da che tipo di osservazione della realtà nascono?

Ho ricevuto la sceneggiatura già scritta da Maria Teresa Venditti e Luca De Bei. Su questa base ho lavorato, come dicevo, nell’ottica della fiaba. I luoghi della vicenda sono reali e contemporanei, ma sono anche come sospesi, come anche il tempo: è come se fossero un po’ a lato rispetto alla nostra sensibilità. Il pratone dove Amanda incontra Benedetta si trova in un contesto urbano, ma è anche un luogo anarchico che cresce come vuole. Il loro incontro, per me, è l’incontro tra due adolescenti, anzi, tra un’adolescente, che è Benedetta, e un eterno bambino come Amanda. Questo rapporto libero, senza una figura adulta, è alla pari. Mentre in famiglia gli sguardi sono verticali, Amanda la prende così com’è, non fa nessun calcolo, non pensa alle conseguenze, non calcola costi e benefici, e questo lascia un’apertura di non giudizio. È una persona pulita e dunque non pericolosa perché non manipola.

Come definirebbe il rapporto tra loro due, un rapporto dove c’è amore, attrazione, sfida e anche conflitto?

E’ un qualcosa che si trasforma in una sorellanza. Amanda per me è sempre stata Lucignolo, che porta Benedetta in luoghi che lei non avrebbe visitato da sola.

Ci può parlare della metafora del calcinculo?

Amanda dà a Benedetta quella spinta che la famiglia d’origine non è in grado di offrirle, la mette in relazione con il suo corpo di 15enne e scopre la sua bellezza. La scena in cui Amanda porta Benedetta sul calcinculo era già in sceneggiatura: è il primo passo di questa apertura, di questo uscire fuori dalle mura di casa. Credo che se Benedetta si dovesse giudicare da sola non avrebbe tanti problemi rispetto al suo corpo, è lo sguardo materno che le rimanda una difficoltà. Amanda la cura, si fa carico di Benedetta, favorisce un momento di leggerezza importantissimo per una ragazza a cui viene fatto notare di continuo il suo peso. La giostra ti rende leggero ma provoca anche la paura di cadere, di volare, però ti fa staccare da ciò che ti tiene ancorata.

Il film mette in scena tutte le frustrazioni che si celano dietro un ménage: la madre avrebbe voluto essere una ballerina, il padre (Giandomenico Cupaiuolo) si sente costretto nel suo ruolo e inganna. Che tipo di famiglia volevate raccontare?

Una famiglia in cui c’è della violenza sotto sotto, negli sguardi. Benedetta è una spugna che assorbe tutto e parla pochissimo, specie nella prima parte del film. Come in tutte le famiglie, a vari livelli, si respira una qualche forma di violenza. Non è una famiglia disagiata, problematica o degradata. Siamo in periferia, ma è una periferia dove si lavora. Il livello di violenza passa attraverso la tv sempre accesa che evita il vero stare insieme e il guardarsi in faccia. Non c’è mai silenzio. La violenza tra madre e figlia è nel piatto di pastasciutta. Con Barbara e Giandomenico abbiamo parlato dei loro personaggi come di due adulti con un nucleo bambino, che difendono strenuamente un sogno irrealizzabile, le auto per lui, la danza per lei, senza riuscire a condividerlo. Ma non ho emesso un giudizio negativo su nessuno dei personaggi.

C’è una scena molto forte, in cui Benedetta, di notte, apre il frigo e mangia un petto di pollo crudo.

Per me è uno dei momenti più intimi di Benedetta. Mi rendo conto che sia abbastanza orrendo da vedere, ma per me è una coccola, che certo contiene anche un elemento di autolesionismo, ma è un modo di darsi sollievo perché c’è qualcosa che fa più male e che non riesci ad afferrare. È un gesto paradossale.

Come ha scelto i due protagonisti? Gaia Di Pietro è un’esordiente assoluta, mentre Carpenzano ovviamente è un attore già consolidato.

Gaia l’ha trovata Chiara Polizzi, la casting director. Era difficile incontrare le ragazze perché abbiamo lavorato durante il covid, ma Gaia ci ha mandato un self tape e l’abbiamo chiamata subito, poi l’abbiamo fatta messa a confronto con Giandomenico e Barbara, i suoi genitori nel film. Lavorare con Carpenzano è molto bello, con lui c’è uno scambio continuo. Sono così diversi, con due fisicità opposte, eppure hanno una chimica fortissima.

Palazzo di Giustizia è stato presentato a Generation, adesso Calcinculo va a Panorama. Cosa rappresenta per lei questo festival e cosa significa essere qui in un anno come questo, con tante limitazioni per il coronavirus, ma anche con la voglia di ricominciare?

Di Palazzo di giustizia ricordo l’assoluta libertà di incontrare il pubblico e vivere il festival appieno. Sono consapevole che ora è tutto diverso, ma trovo ammirevole la scelta di fare comunque il festival in presenza anche se con restrizioni. È un bel gesto di resistenza. C’è qualcosa che risuona in me a Berlino, è una città sempre in fermento. Il festival guarda molto alle sperimentazioni, è curioso, aperto, e Berlino è una città di liberazione, un po’ punk. È un posto che sento simile a me.

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