Consueta capigliatura dal ciuffo “sgarbiano”, adesso dalla sfumatura platino per massimo omaggio alla nuova Terra d’adozione, la Germania tutta “mafia e pizzerie italiane” che Cetto La Qualunque/Antonio Albanese ha ormai colonizzato dopo aver lasciato la fascia da sindaco di Marina Di Sopra, di cui ora è primo cittadino Melo La Qualunque (Davide Giordano), il figlio, un giovane sindaco integerrimo e al passo con i tempi: tecnologico, green, no tax, no vax, “cazzu cazzu”.
Eppure la famiglia, l’Italia – a quasi dieci anni da Qualunquemente (2010) e a sette da Tutto tutto, niente niente (2012) – l’agonia dell’ultranovantenne zia, sono un richiamo a cui Cetto non si sottrae: torna così a Marina e, sul letto di quasi-morte dell’anziana scopre un passato clamorosamente eccezionale: Cetto è proprio “un figlio di puttana”. Sua madre, infatti, giovane ricamatrice, cinquant’anni fa circa, aveva “testato” le lenzuola che con le sue “mani d’oro” – “e non solo quelle”, specifica la decrepita zietta – consegnò una sera nella casa del principe del posto, rimanendo incinta di Cetto, unico erede dei Buffo di Calabria.
In un Paese, la nostra Italia, in cui basta promettere meno tasse per poi aumentarle, e altri paradossi così, in cui nessuna forma di alleanze “cromatiche” – e non – ha portato ad una stabilizzazione, un consesso di nobili sprona Cetto Buffo a portare avanti la causa monarchica, con certa incoronazione, nientepopodimeno che, da parte del Santo Padre.
Antonio Albanese, che ha sceneggiato con Piero Guerrera il film Cetto C’è, Senzadubbiamente, sceglie il tono della fiaba per proporre questo terzo capitolo della storia di Cetto La Qualunque, calando così il personaggio iperbolico dentro ad una dimensione con specifici e riconoscibilissimi richiami al quotidiano sociale e politico italiano, ma rimanendo nella dimensione favolistica, che da una parte conferisce a Cetto un profilo ancor più in linea con certa sua surrealtà, dall’altro forse un po’ sbiadisce il suo eccezionale smalto, prima amplificato proprio dal fatto d’essere perfettamente immerso nella realtà più concreta. Il suo essere eccessivo, gretto, squallido, smodatamente normale, non era mai qualcosa di fantasioso, ma anzi un’impietosa, quanto tangibilissima, fotografia del “difetto italiano”, un profilo che ancora vive anche in Cetto C’è, Senzadubbiamente, ma che un po’ il linguaggio fiabesco smorza e rende meno ficcante.
Con Cetto, nel film incontriamo i personaggi che hanno brillantemente già connotato la sua biografia: il figlio Melo, il fedelissimo Pino (Nicola Rignanese), la ex moglie (Lorenza Indovina) qui in una piccola ma esilarante sequenza, dove da ingioiellata e volgare signora La Qualunque è ora monaca di clausura; ma adesso, altra storia, altri personaggi: sono infatti il nobile ed enigmatico Venanzio (Gianfelice Imparato) e la biondissima Petra, sensuale moglie tedesca (Caterina Shulha), ad aggiungersi al clan di Albanese, per cui “con tutto quello che succede ultimamente nella politica italiana, Cetto rischiava di trasformarsi in un moderato, doveva riapparire adeguandosi all’aria del tempo, ancor più trasgressivo e potente. Avevamo immaginato in un primo tempo un certo Presidente della Repubblica che fosse una sorta di educatore/guru legato alle religioni ma poi, nel lavoro di documentazione, abbiamo verificato che il mondo della monarchia non è affatto scomparso in Europa, anzi si mantiene vivo e vitale”, spiega il “re” del film, Antonio Albanese, che in una sequenza finale chiosa in musica, con il brano dal titolo eloquente Io sono il re – testo di Albenese e Guerrera – cantato, in scena, con il rapper Gué Pequeno.
“Non era facile trovare la strada per questo clamoroso ritorno, ma Antonio e Piero sono soliti stupirci con la loro invidiabile capacità di cogliere gli umori del Paese”, dice Giulio Manfredonia, regista del film, e fedelissimo compagno di set di Albanese da ormai 25 anni.
Prodotto e distribuito da Wildside, Fandango, Vision Distribution, il film esce dal 21 novembre.
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