Céline Sciamma: “La mia utopia è reale”

Ritratto della giovane in fiamme, forte di due importanti premi alla sceneggiatura (quello del concorso di Cannes e quello appena vinto agli Efa), arriva nelle sale con Lucky Red dal 19 dicembre


Non seduzione, ma armonioso movimento l’una verso l’altra. Non giochi di potere ma l’utopia di una piccola comunità di sole donne autosufficienti e creative, accese d’amore. Ritratto della giovane in fiamme, forte di due importanti premi alla sceneggiatura (quello del concorso di Cannes e quello appena vinto agli Efa), oltre alla Queer Palm e alla candidatura ai Golden Globe, arriva nelle sale italiane con Lucky Red dal 19 dicembre. La regista Céline Sciamma, già autrice Tomboy – un coming of age sull’identità di genere – e sceneggiatrice di La mia vita da zucchina, si sposta nella Francia di fine ‘700 per imbastire il rapporto tra Marianne (Noémie Merlant), una giovane pittrice, e Héloise (Adèle Haenel) appena uscita dal convento e destinata a un matrimonio combinato con uno straniero. A decidere per lei è la madre (Valeria Golino) che desidera rientrare in società, tornare nella natia Milano, abbandonando la casa isolata sulle coste della Bretagna sferzate dal vento. Marianne è incaricata di ritrarre la giovane promessa sposa – dal dipinto dipende la buona riuscita dell’affare matrimoniale – ma dovrà farlo all’insaputa di Héloise, che ha già rifiutato di posare per un altro pittore. Dunque si finge una dama di compagnia, sotto lo sguardo di una fantesca (Luana Bajrami) sempre più complice e amica. Ed è proprio lo sguardo il fulcro del film: non solo quello dell’artista sulla sua modella ma anche quello di Héloise su Marianne – “mentre tu mi guardi, anche io ti guardo” – e quello della terza donna, la cameriera, in un equilibrio di conoscenza e passione che diventa la trama di una storia d’amore vissuta in totale isolamento e a contatto con una natura burrascosa, quella del mare invernale. Non c’è chi guarda e chi è guardato perché il cerchio si chiude. Riscrivendo in qualche modo il mito di Orfeo ed Euridice.

Come spiega i tanti premi vinti dal suo film? Se li aspettava?  

Credo che siano un segno di gratitudine per la lunga attesa che gli spettatori, specie le donne, hanno dovuto compiere prima di vedersi rappresentate in questo modo. Sono tempi nuovi, molto attesi da alcuni, mentre per i giovani il film è una scoperta, apre nuove prospettive.

Qual è la scoperta?

Quella di un immaginario femminile e femminista potente che accede al grande schermo.

Ma il film non è solo questo. Contiene molte altre cose e soprattutto un’idea di cinema compiuta, complessa, sfaccettata, molto matura.

Il film cerca di creare una nuova forma di racconto, nel ritmo, nella regia, nella messinscena e soprattutto nelle dinamiche tra i personaggi. Cerca di uscire dalla convenzione che considera ogni rapporto tra personaggi, che sia d’amore o creativo, come un rapporto di potere. Qui invece c’è uguaglianza. L’ho deciso fin dalla fase di scrittura. Ci hanno insegnato che una scena è una negoziazione tra due parti, un conflitto. Come si fa a uscire da questa dinamica? Io propongo una nuova esperienza allo spettatore, uno sguardo attivo. Non c’è più la dominazione dell’autore e avvengono molte cose sorprendenti. Non c’è potere basato sulle differenze di classe, sociali o nel rapporto tra il pittore e la modella. C’è uguaglianza e parità.

Golino. Ho vissuto sulla mia pelle questa teoria di Céline. La prima volta che abbiamo parlato del mio ruolo, anche per tirare acqua al mio mulino, proposi che la madre fosse più conflittuale, che rappresentasse un pericolo per creare più tensione nella storia d’amore. Ma Céline ha detto di no. “Non voglio metterle in pericolo, voglio che tutto vada bene”, mi ha risposto. È difficile raccontare la felicità, il benessere. È più facile raccontare la disarmonia, il dramma, la tragedia. Ma questa era la sua concentrata traiettoria. È un film libero.

Nel film non ci sono sostanzialmente personaggi maschili, tranne che nelle ultime scene.

Io voglio filmare soggetti e non oggetti e non volevo reificare gli uomini o raccontare la storia dei soprusi che le donne hanno subito nel tempo.

La prima scena con l’arrivo di Marianne in barca e la caduta in acqua della tela fa pensare a Lezioni piano.

Ho pensato a Jane Campion e Lezioni di piano, è vero. Non mi piace parlare di ispirazione o di omaggio, ma piuttosto di amicizia tra i due film. Un altro film amico è La marchesa von di Eric Rohmer per la volontà di ricostruire il passato utilizzando gli strumenti del cinema, senza la pesantezza tipica di certi film in costume. Abbiamo evitato tutto quello che riguardava la mondanità e gli aspetti eccessivi della rappresentazione del ‘700. Per incontrare queste due ragazze abbiamo bisogno di condividere la loro solitudine.

Perché ha scelto Valeria Golino e come ha lavorato con lei?

Ho scelto Valeria, perché condividiamo un’idea di cinema. È un’attrice che amo, una persona che adoro e una regista con cui parlo volentieri di cinema.

Golino. Mi ha fatto recitare con estremo rigore, non ho una parola di troppo, ha levato tutti i miei piccoli orpelli, i trucchi del mestiere e anche il trucco, il make-up, mi ha veramente denudato. C’è intensità in ogni piccolo gesto. Mi metteva malinconia questo ruolo di una madre che ha perso la figlia maggiore, probabilmente suicida e che vuole far sposare la minore. Basta questo per far capire quanto si possa essere infelici a dover accettare un destino del genere. Ma questa donna ha vissuto nelle convenzioni e continua a perpetuarle.

Marianne espone un suo quadro dedicato al mito di Orfeo ed Euridice, un mito molto presente nel film, e il quadro viene attribuito al padre, anch’egli pittore.

Questa scena mostra l’assenza di possibilità per le artiste di quell’epoca: ci sono state circa un centinaio di pittrici nel Settecento, rimaste escluse dalle cronache e dai resoconti storici ma che hanno avuto carriere di successo, erano molto richieste. Però non avevano accesso alle stesse opportunità degli artisti maschi. Non avevano diritto di dipingere uomini nudi, di conoscere l’anatomia maschile, quindi di dipingere grandi scene mitologiche, per esempio, la loro esclusione è una questione di educazione e di mancate opportunità. La soluzione per lottare contro i pregiudizi è dare alle donne l’opportunità di esprimersi, e nel cinema questo significa dare più soldi alle registe.

Il film è senza musica tranne che nella scena del sabba e nella scena del teatro.

Volevo un film senza musica, anche se fa un po’ paura un film in costume e un film d’amore senza commento musicale. Ma mi sono voluta mettere nelle stesse condizioni di queste ragazze, per loro trovare un libro e ascoltare musica era un fatto raro, non banale. Perciò quando la musica arriva, lo spettatore si connette ancor più fortemente con il suo potere. La canzone del sabba, composta apposta per il film, doveva creare una trance, evocare l’immaginario delle streghe, che in effetti sono semplicemente donne che si ritrovano, come amiche sagge, che conoscono la medicina, la botanica e che venivano messe sul rogo per la loro sapienza, solidarietà e autonomia.

Ha mostrato anche un aborto.

Sono rarissime al cinema le rappresentazioni di un aborto, ed è strano perché è un evento molto comune. La scrittrice Annie Ernaux ha detto una volta che al mondo non c’è un solo quadro intitolato L’aborto o La morte degli angeli. Per questo ho rappresentato sia un aborto che il dipinto di un aborto.

Come ha lavorato con la costumista Dorothée Guiraud? Ci sono pochissimi abiti nel film.

I vestiti sono di materiali pesanti e non brillanti. Non abbiamo usato la seta, tranne che per l’abito verde, ma il cotone e la lana. Non è una sfilata di moda in stile Versailles. Inoltre, volevo che avessero le tasche. Nell’Ottocento le tasche sono state proibite alle donne perché ci si poteva nascondere qualcosa, ma nel Settecento erano ancora ammesse. Comunque, anche oggi noi donne abbiamo tasche più piccole e dobbiamo sempre portare delle borse.

Il rapporto tra queste tre donne – che supera anche barriere sociali nella relazione con la cameriera – è pura utopia?

 Le utopie non sono fantasmi, si fondano su qualcosa che viviamo veramente, come l’utopia ecologista o quella della sorellanza che io sperimento per davvero. Le distopie esistono anch’esse: ci sono luoghi dove la dittatura, il fascismo sono reali.

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13 Dicembre 2019

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