Castellitto napoletano, pensando a Eduardo


Dopo il bel successo personale ottenuto qualche giorno fa con Questione di punti di vista di Jacques Rivette (presentato in concorso), Sergio Castellitto è tornato a Venezia nella sezione Orizzonti con Tris di donne & abiti nuziali, il film di Vincenzo Terracciano di cui è protagonista con la tedesca Martina Gedeck, già al suo fianco in Ricette d’amore, Paolo Briguglia e Raffaella Rea oltre a Elena Bouryka. Il film scritto dal regista napoletano di Per tutto il tempo che ci resta e Ribelli per caso con Laura Sabatino e Giuseppe Improta, prodotto da Camaleo, Kubla Khan e Rai Cinema e distribuito da 01 a partire dal 18 settembre, è ambientato a Napoli e racconta la storia di Franco Campanella, un cinquantenne prepensionato alle Poste sposato con la tedesca Josephine (Martina Gedeck) da cui ha avuto due figli ormai grandi che lavorano uno come cameriere e l’altra come supplente (Paolo Briguglia e Raffaella Rea). Franco però è come posseduto dal demone del gioco, scommette su tutto quello che gli capita a tiro (poker, cavalli, lotto, roulette), perdendo regolarmente, indebitandosi a ripetizione e sconvolgendo gli equilibri familiari. L’uomo promette ai familiari di smettere e di diventare finalmente responsabile e in previsione di un giorno speciale come quello dell’imminente matrimonio dell’adorata figlia Luisa si ripropone di contribuire in modo adeguato all’evento acquistandole l’abito da sposa. Per procurarsi però il denaro necessario ricorrerà di nuovo al gioco e alle scommesse provocando ulteriori guai.

 

“Mi fa molto piacere che sia arrivato a Venezia anche questo mio personaggio”, ha dichiarato Castellitto a Cinecittà News. “Amo molto questo Franco Campanella e per costruirlo ho tenuto conto delle suggestioni di tanta commedia italiana di cui il nostro film ha l’ambizione di essere un po’ figlio: in genere parto sempre dai comportamenti più che dalle parole del personaggio da interpretare e in questo caso ho cercato di rendere omaggio umilmente a grandi attori-scrittori italiani del passato come Eduardo, Peppino, De Sica o Germi, il mio vuole essere un atto d’amore verso quegli interpreti che mi hanno trasmesso la passione verso il nostro mestiere, un omaggio al loro modo di recitare, nello stesso tempo umile e presuntuoso, che mette insieme la miseria e la nobiltà della vita”.

 

Vincenzo Terracciano ha quindi messo in rilievo come l’idea del suo film sulla vita di un giocatore d’azzardo sia nata otto anni fa, allargandosi poi col tempo alla descrizione dei suoi rapporti con la famiglia “per verificare come le dinamiche e i sentimenti al suo interno siano dettati non da vincoli istituzionali ma dalla comprensione delle debolezze degli altri. Franco è un uomo capace di scegliere e di prendersi le responsabilità delle scelte, l’idea del ‘maledettismo’ e del giocatore romantico non c’entra con il nostro protagonista”, ha sottolineato il regista, ricordando come il finale duro e piuttosto coraggioso che ricorda quello de Il sorpasso (“mi sento figlio della tradizione nobile dei Risi, Germi, Comencini e Monicelli che raccontavano la nostra realtà tenendone presente ogni aspetto: se c’è un sorriso c’è anche la tragedia”) sia stato “un punto fermo fin da subito: siamo partiti da lì per voler raccontare il valore del naufrago che prova dolcezza guardando il delirio del mare”.

 

E a proposito della scelta di raccontare la Napoli borghese e piccolo borghese del Vomero dove non ci sono gli aspetti terribili di Gomorra, Terracciano ha spiegato: “Nel film di Garrone la città è stata splendidalmente filmata, qui da noi invece stata messa in scena e raccontata con luci ed ombre quasi cechoviane, ad esempio vediamo il mare soltanto alla fine, ci si dimentica di essere in una città di mare e pur restando dentro una certa tradizione questo arriva come una novità visiva. Scrivendo il soggetto con Giuseppe Improta, che conosce meglio di me quell’ambiente, sono venuti fuori certi episodi che poi hanno preso una forma articolata nella storia architettata in seguito con Laura Sabatino. Napoli è una città più citata che percepita, più teorizzata che ‘letta’ – ha detto ancora il regista – io sono andato via da lì 20 anni fa e in questa occasione ho voluto tornarci con la cinepresa sia perché mi interessava la figura del protagonista e la sua famiglia senza ulteriori orpelli sia perché volevo fare un film tutto ‘sulle scale’. Non mi interessava infatti la parte superiore o inferiore della città, ma il percorso, il limite d’azione, è stata una scelta estrema (in genere è più suggestivo avere un fondo e non dei gradini), la scelta teorica è stata quella di decidere il campo d’azione”.

autore
11 Settembre 2009

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