“Mi sono tagliato completamente i capelli, per offrire il cranio nella sua nudità, vuoto di capelli ma colmo di sapienza, fantasia, pericolosità. Tutto questo fotografato nel corridoio finale della vita, con il controcampo della giovinezza: il Vittoriale è la geografia dell’anima di Gabriele D’Annunzio, non è un luogo d’antiquariato ma archeologico, una placenta”, con queste parole Sergio Castellitto, ovvero Il cattivo poeta, restituisce il suo Vate, nella fase senile e disperata della propria esistenza, nel film di Gianluca Jodice.
“Il cattivo poeta è un film abbastanza ambizioso come impianto e con D’Annunzio abbiamo la prima rockstar che muoveva folle senza social network: il Vate è stato un po’ asfaltato dopo il Ventennio e nel film si vede la realtà, confrontata con storici e filologi, in cui Jodice da sceneggiatore ha fatto un grande lavoro di recupero realistico. Accanto all’intrattenimento ci viene restituita la realtà dei fatti, cosa che considero molto preziosa. Ringrazio anche Sergio Castellitto, che ci ha permesso di essere forti e credibili internazionalmente, per questa opera prima”, commenta Matteo Rovere, che ha prodotto il film con Andrea Paris per Ascent Film.
“Il dono che fa il cinema è far capire che D’Annunzio è un genio: se c’è una figura assimilabile è Pasolini, entrambi sono stati poeti-soldato, i primi a uscire dalla trincea e prendere il colpo in fronte. E con loro Curzio Malaparte, fascista della prima ora e poi critico: queste tre figure permettono di rileggere l’intelletto italiano in un altro modo. Il potere ha sempre avuto bisogno degli artisti, dal mecenatismo del Rinascimento: un artista dovrebbe essere contro chi comanda, ma talvolta, alcuni, si sono lasciati accarezzare”, continua Castellitto.
Il personaggio dell’attore, nel film negli anni 1936-1938, trascorre l’ultima fase della propria esistenza nella sua dimora di Gardone, torre d’avorio e gabbia, in cui inesorabile si mette in luce la deriva del potere, quello di Mussolini, cui dapprima il Vate era stato fedele e promotore, ma che ora, difronte al fascino del Führer, lo fa essere critico, lucidissimo, desideroso di comunicare con il Duce, che invece gode nel saperlo lì relegato, senza che possa innescare nessuna interferenza tra le trame della sua ascesa nel pantheon delle dittature europee. Ed è grazie al rapporto che il Poeta stabilisce con il giovane federale bresciano Giovanni Comini, l’attore Francesco Patanè (leggi intervista), che questo profilo dell’ultimo D’Annunzio si rende vivo, nella sua sofferenza, ma anche in una sorta di paternità che decide di nutrire verso il genuino camerata.
“Il personaggio – come l’ho approcciato io – è stato un giovane in guerra, uno che non se l’era immaginata bene, come gli dice anche D’Annunzio nel film: mi sono posto con l’ingenuità e la fiducia di chi abbraccia una guerra che non combatte in prima linea; Comini cede alle lusinghe della politica e stringe con passione certi ideali: la fortuna che gli capita è stata incontrare D’Annunzio, che gli apre gli occhi, quindi la sfida da attore è stata la presa di coscienza e il suo cambio di rotta. La cosa più difficile da raccontare è stata la capacità di rimanere aperti ad ascoltare l’altro, cosa rischiosa, quindi spero che Comini racconti al pubblico di avere il coraggio di cambiare idea”, spiega Patanè del suo delicato quanto imprescindibile personaggio, e continua dicendo: “Mi sono documentato al contrario, cercando di dimenticare tutto quello che sapevo su Gabriele D’Annunzio: Comini arriva al Vittoriale sapendo quello che sapevano un po’ tutti e così ho cercato di fare tabula rasa, e pensarmi come un giovane che arrivava davanti ad un grande personaggio, come io davanti a Castellitto, per cui provi soggezione e curiosità”.
“Francesco faceva la spalla ai molti attori del cinema italiano che si erano presentati ai provini per il ruolo: passavano le settimane e con la casting ci siamo resi conto che desse bene le battute, con questo suo volto un po’ antico. Così gli ho chiesto di fare un provino. L’ho mostrato a Rovere, che pensavo volesse ‘un nome’, invece ha ammesso fosse il migliore”, e così la parte è stata affidata a lui, un ruolo reale, infatti, continua il regista: “C’è un libro, non più rintracciabile, in cui c’erano le lettere tra il segretario Starace – fedelissimo di Mussolini – e Giovanni Comini, con due/tre capitoli di diario del Federale; così come molte parole pronunciate da Castellitto sono da fonti ufficiali. Sergio ha costruito poi picchi d’improvvisazione che andavano a vivificare e sorprendere”.
Per la scelta del soggetto, Gianluca Jodice racconta che: “il fatto di aver esordito tardi mi dava modo di essere un po’ più sfacciato. Matteo Rovere mi disse di pensare a un biopic e risposi D’Annunzio, un poeta racchiuso in questo castello, tra ossessioni, perversioni, donne, cocaina, in cui aveva perso un po’ anche la sua vena: una specie di Nosferatu che ha subito una damnatio memoriae dal Novecento, un personaggio che ha vissuto mille vite e mai raccontato dal cinema”.
Con “Tonino Zera per le scenografie e Daniele Ciprì alla fotografia, c’è stato un terzo fondamentale collaboratore, il Vittoriale, in cui non s’era mai potuto girare prima, con tutto l’originale presente, dall’arredo ai props, senza cui il film avrebbe perso parte della sua anima”, specifica ancora Rovere.
Il cattivo poeta, che D’Annunzio – come spiega Jodice – “disse di sé in una lettera, quando già al Vittoriale, mi sembrava un titolo ironico, affettuoso e che affrancasse la sua ‘cattiveria’”, esce in sala dal 20 maggio in 200 copie.
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