CARMELO BENE


Il Festival di Cannes, tra i vari omaggi, eventi speciali e quant’altro, ne dedica uno in memoria di Carmelo Bene. Presenta il suo Otello, che non è propriamente un film, ma è un po’ il suo documento testamentario. Del resto, Carmelo aveva chiuso la sua parentesi cinematografica nel 1973 con Un Amleto di meno e quando mai i suoi film, cinque in totale, sono stati propriamente dei film, nella comune accezione data a questo termine dal momento in cui pubblico e produttori decisero di comune accordo che il cinema doveva raccogliere la bandiera del romanzo popolare e del feuilleton, messi in discussione dalla svolta letteraria voluta dagli scrittori all’inizio del Novecento?
Badate alle date: il cinema di Carmelo Bene è racchiuso tutto nei sei anni che vanno dal 1968 al 1973. Sono gli anni dei “film militanti”, di guerriglia”, dei “ciné-tracts”, dei “cinegiornali liberi”, degli avvenimenti registrati direttamente in video, degli slogan del tipo “tutto è politica”, “il quotidiano è politica”, “il sesso è politica”, “l’arte è politica”, dello slogan-principe che li comprendeva un po’ tutti “l’immaginazione al potere”.
Sono gli anni in cui i temi ricorrenti suonano la morte della famiglia, il Vangelo coniugato con la rivoluzione, il processo alla borghesia, il pacifismo con particolare riguardo alla guerra in atto nel Vietnam, l’antimperialismo e l’anticolonialismo, il malessere della società e le contraddizioni dell’intellettuale, l’antirazzismo e l’attenzione verso i “diversi”, la battaglia contro le istituzioni autoritarie, psichiatria, polizia, scuola, mass media, governo, la rivoluzione sessuale, il ruolo della donna nella rivoluzione mondiale, la condizione operaia di fronte alla dittatura del capitale, l’omaggio alla controcultura, che postulava l’uso della droga, il modo di vivere hippie, l’anticonsumismo (bastavano i rifiuti della società opulenta per garantire la sopravvivenza). A monte, per il cinema valeva l’impegno di spezzare l’asse che collegava Hollywood a Cinecittà, con le sue diramazioni che toccavano gli studi di Parigi, di Londra e di Mosca.
Il cinema di Bene era in sintonia, assolutamente involontaria, con alcuni di questi precetti. Ma, per il resto, li sbeffeggiava, sbandierando il suo orgoglioso, quanto provocatorio, isolamento. Nel ‘68, quando l’Anac inventò la contestazione alla Mostra di Venezia, Luigi Chiarini, che la dirigeva, invitò in concorso sei film italiani realizzati dai registi più “eversivi”, che si trovavano sul mercato, mettendoli tutti in grave imbarazzo. Che fare? Andarci o no? alla fine ci andarono tutti, adducendo strazianti distinguo; ma Carmelo Bene non aveva atteso l’ultima ora per dire di sì: l’aveva detto subito, compiacendosi nell’atteggiarsi reazionario di fronte a coloro che si battevano per l’abolizione dello statuto fascista che governava ancora la Biennale. Anzi ritenne il momento buono per spezzare una lancia in favore di questo statuto.
Rivolgendosi a Giuseppe Saragat, allora Presidente della Repubblica scrisse: “Intelligentemente ossequioso dell’ancora attuale STATUTO “fascista” che regola la BIENNALE DI VENEZIA (soprattutto la “mostra d’arte cinematografica”), La scongiuro volere Ella intercedere a che nulla venga mutato in proposito, di modo che un qualsivoglia potere partitico o partitico-artistico non subentri arbitrariamente ad occupare lo spazio ormai sfatato – e perciò disponibile ancora concretamente – di una REALTA’ FANTOMATICA, sostituendovi il FANTASMA REALE di qualsivoglia POTERE”. Trascrivo l’appello così come appare a pag. 13 del volume di Bene “L’orecchio mancante”.
Testo oltremodo preveggente, visto come sono andate le cose, da quando a Venezia è entrato in vigore lo statuto democratico, trasformatosi repentinamente in uno statuto governativo-partitocratico (lo statuto fascista dal dopoguerra in poi, aveva almeno il vantaggio di essere inapplicabíle – bisognava ancora chiedere il benestare del Duce e del Re Imperatore – dando al direttore una libertà d’azione che in seguito non ha più avuto).
Ma dubito della preveggenza politica di Carmelo Bene. Credo piuttosto nel gusto quasi goliardico per la provocazione, che egli manifestava quotidianamente negli spettacoli allestiti nelle cantine trasteverine (quell’Addio porco!, che con la complicità di un manifesto zeppo di errori di stampa, mi fece intitolare una recensione “Questa sera si recita a bestemmie”).
Ecco, mentre oggi è in corso la sua imbalsamazione come vate del ventesimo secolo, lo sento più vicino in queste manifestazioni. Il Bene che ho conosciuto (forse lo ho conosciuto male) è quello che mi esilarava, quando spediva nelle redazioni dei quotidiani uno dei suoi accoliti con la recensione entusiastica del suo spettacolo, scritta, da lui stesso, ma attribuita al critico teatrale titolare. Si che un giorno su “Paese Sera”, “Momento Sera” e “ll Tempo”, apparve a firme diverse la stessa critica.

13 Maggio 2002

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