Racconta l’inquietante realtà delle cosiddette “terapie riparative” ancora oggi praticate in alcuni centri di conversione dall’omosessualità, il film che Desiree Akhavan ha tratto dall’omonimo libro di Emily Danforth, La diseducazione di Cameron Post, alla Festa di Roma e nelle sale con Teodora Film dal 25 ottobre. Presunte cure che hanno la pretesa di trasformare le persone omosessuali in eterosessuali, riparando o, appunto, convertendo l’orientamento sessuale che viene considerato una deviazione dovuta a condizionamenti o traumi familiari. Una pratica che sembrerebbe arcaica ma che in realtà si è sviluppata negli Anni ’80, fondata dallo psicologo statunitense Joseph Nicolosi, e vanta tutt’oggi diversi seguaci in America, soprattutto tra le frange più conservatrici delle diverse fedi religiose. “Più di 700mila persone hanno seguito queste terapie in America – denuncia la regista – solo in alcuni Stati è ad oggi considerato illegale applicare terapie di conversione ma, ad esempio, ci sono tutt’oggi centri anche a New York, una delle città più liberali degli USA”.
“Ho trovato nel romanzo di Emily Danforth la più onesta rappresentazione dell’essere un adolescente, soprattutto in rapporto alla sessualità e al momento di consapevolezza verso il mondo degli adulti che a un certo punto si smette di idealizzare, capendo che loro stessi a volte non sanno cosa stanno facendo. Un fantastico disincanto nei confronti dell’autorità”. Rispetto all’atmosfera che si crea in un centro di riabilitazione la regista ha attinto alla sua esperienza personale: “Capisco cosa vuol dire sentirsi malata nel corpo e in colpa perché stai rovinando la vita della tua famiglia”, sottolinea Akhavan che è stata da ragazza in un centro di riabilitazione per curare un disturbo del comportamento alimentare. “Quando si ha un rapporto distruttivo con il cibo, non si può fare come con l’alcol o le droghe che vengono messe da parte, rispetto al cibo occorre cambiare un rapporto che è radicato nel proprio corpo, per migliorare occorre rinunciare a qualcosa di se stessi. Nel mio caso però, a differenza delle cure per l’omosessualità, l’ho fatto per perseguire un obiettivo positivo”.
Nel film, vincitore del Gran premio della giuria al Sundance, protagonista la brava Chloe Grace Moretz recentemente vista in Suspiria di Luca Guadagnino ma già apprezzata anche in Sils Maria e Hugo Cabret, nei panni di un’adolescentesorpresa a baciarsi con un’altra ragazza durante il ballo della scuola. Per questo viene spedita in un centro religioso, God’s Promise, in cui una terapia di conversione dovrebbe, appunto, “guarirla” dall’omosessualità. Anche se le persone che gestiscono il centro non vengono presentati come carnefici, ma individui sinceramente convinti di proteggere ed aiutare i ragazzi, il loro modo di concepire la sessualità e il peccato non può che spingere le menti confuse e assediate dai sensi di colpa di un gruppo di adolescenti ad odiare o quantomeno rifiutare se stessi.
Un lavoro, quello sulla ricerca dell’identità che sta molto a cuore alla regista, cresciuta in America da una famiglia di origine iraniana: “Gran parte del mio lavoro ruota attorno alla questione dell’identità, dell’appartenenza. Molto del viaggio della mia vita riguarda il trovare una casa e una radice rispetto a situazioni in perenne conflitto. Vengo dall’Iran ma vivo in America, due nazioni completamente differenti, sono bisessuale, e dunque una persona non grata anche nella stessa comunità omosessuale”. Del resto la narrativa gay, come denuncia la regista, si concentra soprattutto su ruoli maschili, da Brokeback Mountain a Chiamami col tuo nome: “Le storie di donne omosessuali sono rare e spesso vengono realizzate da registi uomini. È come se fosse ancora una specie di tabù, sono poche le donne che raccontano storie sul proprio corpo e sul modo in cui provano piacere”.
Shirin Neshat, esponente dell’arte visiva contemporanea, iraniana naturalizzata newyorkese, ha presentato alla Festa di Roma, nell’ambito del progetto Videocittà, il suo ultimo film: Looking For Oum Kulthum, un ennesimo incontro tra Oriente e Occidente, tra ritratto e autoritratto, con protagonista una donna, un’artista, una leggenda musicale egiziana
Miglior film Jellyfish di James Gardner, una storia d'identità e desiderio di fuga; premio speciale della giuria Ben is Back di Peter Hedges con Julia Roberts e Lucas Hedges; miglior attore Thomas Blanchard per The Elephant and the Butterfly di Amelie Van Elmbt
"Questo film contiene un desiderio - ha detto De Angelis commentando il premio vinto alla Festa di Roma - ed è il desiderio di fare un regalo a chi lo guarda"
Il colpo del cane di Fulvio Risuleo, prodotto da TIMVISION Production e Revok Film, è stato annunciato ad Alice nella città. Nel cast Edoardo Pesce, Silvia d’Amico e Daphne Scoccia, oltre a una partecipazione di Anna Bonaiuto