Caro Martin,
c’è una sequenza che hai voluto premettere ai titoli di testa. E’ un incipit che oggi si usa spesso per esigenze narrative, per introdurre subito lo spettatore in medias res, nel mezzo delle cose, per farlo subito partecipare ai fatti. Ma qui, trattandosi di un film antologico e, nello stesso tempo, autobiografico, esso acquista un valore più alto e, nello stesso tempo, più intimo. La sequenza – lo dico per quelli che non hanno visto il film – è tratta dall’ultimo episodio di Paisà e mostra un cadavere sistemato in un salvagente con un cartello che lo qualifica “partigiano”, cadavere che la corrente del Po trascina verso la foce, mentre una piccola folla di pescatori e contadini lo segue lungo una sponda del fiume, come se ne improvvisasse il funerale.
Per te ha significato la scoperta di un cinema diverso da quello che eri abituato a vedere da ragazzo nella Little Italy di New York. Per noi italiani quella del cadavere del partigiano è stata una delle immagini che ci ha restituito la dignità, non l’identità, come vogliono gli storici “revisionisti”, l’identità che i “revisionisti” credono sia andata perduta l’8 settembre del 1943, il giorno dell’armistizio. Poche sono le immagini cui va attribuito tale merito, e appartengono tutte al nostro cinema: ai nostri film “di finzione”, che sono quelli che “fissano” le immagini della Storia, ne conservano il senso, molto meglio delle immagini dei cinegiornali, che si solito mentono.
Un’altra immagine di questa specie ritrae Anna Magnani falciata da una raffica di mitra mentre corre dietro a una camionetta che le sta portando via il marito, preso durante una retata: immagine-simbolo di Roma città aperta, immagine che tu, nel tuo Viaggio in Italia, ci mostri due volte in due momenti diversi, così come quella del cadavere del partigiano trascinato dalla corrente del Po.
Tanto per dirti, caro Martin, che tu, col tuo viaggio, hai reso un grande servizio al cinema italiano e – forse inconsapevolmente – alla stessa Italia, dove il nostro cinema ha dato più motivi di fastidio che di compiacimento alle autorità costitutive; un giorno perché esibiva i nostri “panni sporchi” (ne accenni anche tu, citando la lettera che Andreotti inviò a De Sica, per lamentarsi di Umberto D.); un altro perché ritenuto osceno (La dolce vita) o addirittura blasfemo (La ricotta di Pasolini); un altro ancora perché assistito con soldi che andavano meglio se spesi per ospedali e scuole (magari private).
E questo servizio l’hai reso riuscendo a restituire il senso delle pellicole prese in esame, pur limitandoti a mostrarne solo alcune sequenze. Esattamente come avevi fatto in precedenza col tuo stupendo viaggio nel cinema americano. Avendo alle mie spalle una certa esperienza in questo lavoro (ho curato per la televisione un viaggio nel cinema giapponese in cinque puntate), ho scoperto una cosa: che un film risulta più sconciato se ne tagli cinque minuti che non 80/90 sui cento di durata. A patto che tu sappia riassumerlo in 10/20 minuti, conservandone per intero il senso. Tu ci riesci a meraviglia, grazie anche a quel genio del montaggio che risponde al nome di Thelma Schoonmaker e, insieme, scopri la tua doppia personalità italiana e americana, che rende i tuoi film di un’originalità unica, anche quando si prefiggono (o fingono?) di seguire le ferree norme dello spettacolo hollywoodiano.
Insieme, forse senza volerlo, ricordi a noi, casomai ce la fossimo dimenticata, la rapidissima profonda mutazione subita alla fine degli anni Cinquanta dal nostro paese, passato in men che non si dica, dalla civiltà contadina alla civiltà metropolitana, dalla fame endemica al benessere diffuso. Ci mostri cosa abbiamo acquistato, ma anche cosa abbiamo perso. Le immagini che tu ci mostri, da un lato quelle di Ladri di biciclette e di Umberto D., dall’altro quelle di L’avventura e di L’eclisse, stanno lì a dimostrarlo.
Grazie ancora, caro Martin, in attesa della prossima tappa del tuo viaggio: quella che riguarderà la nouvelle vague italiana degli anni Sessanta.
Callisto Cosulich
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