“Quelli che mi lasciano proprio senza fiato sono i libri che quando li hai finiti di leggere e tutto quel che segue vorresti che l’autore fosse tuo amico per la pelle e poterlo chiamare al telefono tutte le volte che ti gira”. Le parole di J.D. Salinger ne Il giovane Holden si adattano perfettamente a Robert De Niro, 80 anni oggi. I suoi film sono incastonati nelle nostre vite, tatuati in fondo agli occhi, impressi nella memoria tanto da sentirlo un po’ come un “tuo amico per la pelle”, così da potergli augurare un buon compleanno e restituirgli un po’ del bene che ti ha fatto con le sue interpretazioni monumentali.
De Niro è semplicemente uno dei più grandi attori di tutti i tempi, viventi e non. Un monumento all’arte della recitazione. Per 60 dei suoi 80 anni ha dato vita a personaggi memorabili che sfidano la legge del tempo e si collocano in un Olimpo che continuiamo ad ammirare a bocca aperta, a cuore spalancato.
Lo sfacciato e manesco Johnny Boy in Mean Streets, la prima delle sue numerose collaborazioni con Martin Scorsese. Il giovane Vito Corleone de Il Padrino II che gli ha regalato il primo Oscar. Il Travis Bickle di Taxi Driver quando ha 27 anni e diventa il Re della Nuova Hollywood. Poi Jake LaMotta (Toro Scatenato, secondo Oscar), Rupert Pupkin (Il re della commedia), Al Capone (Gli Intoccabili), Jimmy Conway (Quei bravi ragazzi): tutte schegge scintillanti di un talento poliedrico e brillante, sfaccettature ben scolpite di un diamante da incalcolabili carati.
Tutti conosciamo Robert De Niro, ma in verità molti di noi soffrono di una sfocatura prospettica quando guardiamo la sua esistenza. Ci formiamo un’immagine distorta quando si tratta della sua vita reale perché è così calato nei suoi personaggi che confondiamo ciò che c’è dentro e fuori lo schermo.
Il cognome subito ci trae in inganno. L’Italia canta in quel De Niro così nostrano. Eppure lui è un mix di etnie, tra cui tedesca, olandese e irlandese. Ed è inevitabile pensare al “mitico Bob” come a un prodotto del tumulto e del colore della Little Italy di Manhattan, visto che è salito alla ribalta con Mean Streets e Il Padrino – parte II, entrambi ambientati (e in parte girati) tra quelle strade.
Ma in realtà la sua infanzia è trascorsa a pochi isolati a nord, su Bleecker Street e, più tardi, sulla 14esima strada. L’ambiente in cui è cresciuto non era lo stereotipo di una famiglia italo-americana, con orde di parenti, enormi cene a base di pasta e il doppio dominio della Chiesa Cattolica e della mafia. Era piuttosto un figlio della bohème del Greenwich Village, più familiare all’aroma del diluente per dipinti ad olio che a quello della salsa alla marinara. Robert De Niro sale su un palcoscenico per la prima volta a dieci anni, in una rappresentazione scolastica de Il mago di Oz dove interpreta il leone affetto da pavidità.
I genitori si separano presto e lui si alimenta di un mondo dedicato all’esplorazione estetica e alla fuga dai tabù sociali.
I primi personaggi hanno spesso qualcosa in comune. Quasi sempre sono gangster. Alcuni hanno un carattere irascibile. Vengono da vite difficili, desiderano il successo con ferocia, anche nei casi in cui lo raggiungono, come se fosse una fame implacabile. In questo senso il suo Don Vito è emblematico. Dietro al suo sguardo, molto tempo dopo aver iniziato a indossare abiti sartoriali e preso in mano le redini della sua “famiglia”, continuano ad agitarsi i ricordi ossessionanti delle case popolari e di Ellis Island. Gangster si, ma con la profondità di un lato insondabile. Un mistero che, come una trasfusione ben riuscita, parte dalle vene dell’attore De Niro fin dentro il corpo del personaggio che interpreta.
De Niro, un metro e settantacinque, ha quella capacità ipnotica di sembrare più alto o più basso, a seconda del ruolo. Grazie al “metodo” ingrassa e snellisce in maniera impressionante per Toro Scatenato; guida davvero un taxi in lungo e il largo nella Grande Mela per Taxi Driver e impara a suonare il sassofono per New York, New York.
“Vedo ogni ruolo come un problema matematico – afferma l’attore in un’intervista a John Parker per il libro Robert De Niro. Portrait of a Legend – Il personaggio sullo schermo è la soluzione. Visualizzo il risultato finale e poi risalgo alle radici per scoprire com’è arrivato”.
È con Toro scatenato nel 1980 che De Niro raggiunge l’apice del suo “mistero camaleontico”. E dove estremizza il suo lavoro rendendo il proprio corpo una materia malleabile da usare come strumento per scomparire nel personaggio. Dopo il suo formidabile Jake La Motta che danza gigantesco nel ring stilistico allestito da uno Scorsese in stato di grazia, per un decennio inanella una serie di straordinari film che rafforzano e consolidano la sua immagine di attore totale. Come scrive Shawn Levy nella biografia dedicata all’attore: “Quando ha iniziato a girare C’era una volta in America, Robert De Niro era, quasi senza dubbio, l’attore più potente e convincente del cinema mondiale. Si tratta di un’affermazione enorme, se si considera che all’epoca erano ancora in ascesa titani della recitazione come Al Pacino, Dustin Hoffman, Jack Nicholson, Jon Voight, Robert Duvall e Gérard Depardieu, e che erano ancora in gioco maestri di vecchia data come Jack Lemmon, Paul Newman, Max von Sydow, Peter O’Toole, Michael Caine, Marcello Mastroianni e persino Laurence Olivier e (quando poteva essere disturbato) Marlon Brando. Ma il Robert De Niro del 1982 si distingueva anche in mezzo a una compagnia così prestigiosa e completa. Nella primavera del 1981, aveva vinto il suo secondo Oscar in sei anni per il suo ruolo in Toro Scatenato, un’interpretazione che fu immediatamente riconosciuta come una delle più grandi mai impresse su pellicola, fatta di sorprendenti trasformazioni fisiche e di emozioni crude e strazianti”.
In C’era una volta in America di Sergio Leone del 1984 ci regala un personaggio che disegna il passare del tempo attraverso l’invecchiamento non solo del corpo, ma di una intera anima. Poi Brazil di Gilliam l’anno dopo, l’intenso Mission del 1986, l’Al Capone perfetto de Gli intoccabili (1987) e, infine, la performance giocata in sottrazione del James Conway di Quei bravi ragazzi chiude il cerchio dei suoi gangster scorsesiani con stile e una traccia di malinconia. De Niro ha 46 anni ed è davvero un mostro sacro.
Con l’arrivo del decennio successivo l’ispirazione si indebolisce, il mistero perde consistenza e assistiamo a un progressivo impoverimento del modello costruito nei decenni precedenti, dando l’avvio a un periodo problematico che arriva fino a oggi.
Maestro di camaleontismo e coraggioso nelle sue scelte attoriali, si immerge nei suoi ruoli come nessun attore di “metodo” aveva mai fatto prima per uscirne più forte, più audace, più bravo. La sua aria soprannaturale e misteriosa trasmette pericolo, poesia, sesso, solitudine, arditezza, intensità, sorpresa e brividi. Un attore emozionante come non se ne vedevano dai tempi di Brando e James Dean. Il suo nome sul cartellone cinematografico è un’attrazione irresistibile. Ma a distanza di trent’anni, a volte può essere difficile vedere le prime glorie di De Niro attraverso quello che è diventato il groviglio della sua carriera successiva. L’ascesa divina di De Niro tra metà anni sessanta e fine ottanta diventa una fragorosa discesa che contraddistingue la fine del secolo scorso, tra scelte sempre più sciatte e poco centrate che culminano in uno dei più grandi flop al botteghino di tutti i i tempi: Il ponte di San Luis Rey (2004) con F. Murray Abraham, Geraldine Chaplin e Harvey Keitel, film in costume dal grande sforzo produttivo che incassa meno di 50mila dollari nel mercato statunitense.
Tutto da buttare nei circa 70 film girati dal 1990 a oggi? Fortunatamente no, grazie a due registi in particolare che portano De Niro alle altezze del suo immenso talento: ovviamente Martin Scorsese che lo dirige nel teso e vibrante Cape Fear (1991), nel sontuoso Casinò (1995), nel ciclopico The Irishman (2019) e, infine, in Killers of the flower man (2023) osannato all’ultimo festival di Cannes e dove compare accanto a quello che tutti, lui compreso, indicano come suo vero erede sul trono del più grande: Leonardo di Caprio.
L’altro autore che è riuscito negli ultimi anni a tirar fuori dalle acque torbide del cinema “a tanto al chilo” in cui De Niro sembra essersi votato è David O’ Russell. Il regista newyorkese, attento osservatore dei dettagli bizzarri e imprevedibili del comportamento umano, negli ultimi dieci anni ha esaltato la proverbiale meticolosità del lavoro di De Niro sui personaggi con 4 pellicole importanti: Il lato positivo, Joy, American Hustle – L’apparenza inganna e il recente Amsterdam.
Robert De Niro resta Robert De Niro. Sempre e per sempre. A 80 anni il suo nome continua ad evocare il sogno del cinema come pochissimi altri. Quasi fosse una formula magica che ci obbliga a chiudere gli occhi e rivedere sul fondo della nostra mente la proiezione di strade, personaggi, luoghi, battute, luci e ombre di un mondo che va oltre il nostro stesso mondo. È sempre stata una figura di grande contraddizione nel mondo del cinema: reticente con la stampa ma disposto a partecipare ai talk show notturni e a fare sketch comici e particolarmente disponibile a picconare la sua stessa leggenda e la sua persona, come al Saturday Night Live e nelle pubblicità televisive. Però non è mai stato disposto a condividere nemmeno un aneddoto innocente della sua vita, neppure con “lubrificatori di segreti personali” come David Letterman o Jay Leno. Spesso parla a monosillabi o – in modo comico e provocatorio – non parla affatto. Eppure ci si rende conto che il suo spettacolo di taciturna ostinazione è per certi versi più reale, vero e memorabile di qualsiasi discorso che avrebbe potuto offrire.
De Niro può aver cercato assiduamente di non rivelare chi sia, fornendo solo accenni e allusioni in risposta a domande personali ma ogni volta che appare davanti a noi, a prescindere dal costume, dalla voce, dal nome, dalla storia, eccolo lì, nudo e crudo per com’è: un lavoratore, un uomo di principi, un uomo di ideali. In breve un essere umano a tutti gli effetti, chiaramente definito dal lavoro che ha fatto (e che lo ha reso un Titano del cinema) e dalla vita che ha vissuto.
Auguri, Bob! E grazie per tutto quello che ci hai regalato finora.
Nel vasto "arazzo" di Hollywood, poche figure hanno intrecciato "trame" tanto diverse e durature quanto Danny DeVito
Negli annali del cinema, l’eredità di Leonardo DiCaprio è già assicurata: una figura senza tempo la cui arte e dedizione hanno ridefinito i confini dell’interpretazione
L'interprete ha saputo dipingere ritratti umani che spaziano dal surreale al realismo sociale, riuscendo a strappare sorrisi e meditazioni con la stessa intensità
Reduce dal successo di Beetlejuice Beetlejuice, che l'ha riportata sotto i riflettori internazionali, l'iconica attrice festeggia il suo 60° compleanno il 30 settembre 2024