BRUNO RESTUCCIA


L’omaggio italiano di Scorsese è stato un lungo viaggio, un’operazione che prese il via ben quattro anni fa anche grazie alla collaborazione dei produttori Giorgio Armani, Barbara De Fina, Giuliana Del Punta e Bruno Restuccia. Un film-evento di cui vanno giustamente molto orgogliosi.
Restuccia ci racconta concepimento e nascita di un’opera unica anche dal punto di vista distributivo visto che, a parte l’idea di accompagnarla con una pubblicazione, vivrà soprattutto della circuitazione in Dvd: “Sfido chiunque a lasciarselo sfuggire”, sottolinea Restuccia.

Partiamo dal “viaggio” o dall'”omaggio”?
Iniziamo dall’omaggio al cinema italiano. Quello di un regista che si considera discepolo di Rossellini e negli ultimi anni ha sistematicamente cercato di ricostruire l’immagine del proprio cinema d’autore attraverso le radici del cinema italiano. Con riferimenti espliciti. Dichiarando espressamente, per esempio, di aver girato Mean Streets solo dopo aver visto I vitelloni di Fellini. E così via.

E alla fine non c’è il rischio che questo risulti un omaggio a se stesso?
Il mio viaggio in Italia, a mio avviso, è un vero e proprio spartiacque nel modo di concepire il nostro cinema. E non solo perché Scorsese è un genio che azzera il passato, quanto perché con questo lavoro risolve in modo culturale la concezione, oserei dire militare, che il cinema Usa nutre nei confronti della nostra produzione di celluloide. Crea per la prima volta un prodotto, certo ibrido, che ha a priori la sua autorevolezza autoriale. Semmai il rischio vero è che azzeri la nostra memoria.

Puo spiegarci meglio?
Il processo avviato da Scorsese si può paragonare, in modo metastorico, a quello che vide i romani impadronirsi dell’estetica ellenica. Così, in Italia, si possono ammirare solo copie di Fidia, ma è un modo come un altro per appropriarsi di quella cultura. Fatalmente perdendo l’originale. Voglio dire che fra vent’anni la memoria del cinema italiano sarà contenuta nel documentario Il mio viaggio in Italia.

E cosa avremo guadagnato?
Un’opera che in 4 ore, possono sembrare lunghissime e non lo sono, sappia restituire il senso drammatico di ogni scena. Che raccoglie 40 pellicole di grandi maestri come Blasetti, Rossellini, De Sica, Visconti, Fellini, Antonioni e ne cita almeno un altro centinaio, un numero infinito di fotografie. Vogliamo provare? Fate un nome… e sono certo che Scorsese non l’ha dimenticato.

Un lavoro meticoloso che non ha trascurato l’aspetto della risoluzione tecnica?
Al contrario. Uno dei più alti risultati del prodotto è proprio la qualità delle immagini. La terra trema di Luchino Visconti, per esempio, credo che così non si sia mai visto. Il tutto replicato in 35mm fedele alle tecniche di allora. Utilizzando, quando possibile, i negativi originali e ottimizzando nei minimi dettagli il lavoro di restauro.

Come ve la siete cavata con i diritti?
E’ stato uno dei problemi più intricati da sciogliere. Quello che ha reso tutto più difficile e lungo, anche per una questione di tempi. Ci siamo trovati in una vera giungla di vincoli, approssimazioni, beghe familiari e fallimentari… se non veri e propri misteri. Per la prima volta, e forse l’ultima, un gruppo di persone si è messo a studiare il “corpus” del cinema italiano. Una situazione che, anche negli anni d’oro, era condizionata dal “lasciamoci vivere”. Di alcuni capolavori del nostro cinema abbiamo recuperato i diritti mondiali, ma di altri, tristemente, ci siamo arresi di fronte alla perdita degli originali. Un titolo? Paisà di Rossellini. Aprendo alcune scatole abbiamo trovato solo materiale dissolto. Colloquiato si dice, in termine tecnico, quando la decomposizione chimica del nitrato d’argento scioglie la cellulosa. C’è poco da stupirsi se pensiamo che la documentazione della Cineteca nazionale è iniziata negli anni ’70, con la raccolta di copie, fra l’altro.

Quante persone hanno lavorato al progetto?
Almeno una cinquantina, con in testa l’inarrestabile coppia di ferro formata da Scorsese e dalla sua fidata montatrice Thelma Schoonmaker.

Lo ha risentito durante la sua recente permanenza a Cinecittà?
Scorsese è stato davvero barricato sul set di Gangs of New York. Ma i nostri contatti via email o via fax sono quotidiani. Ha condiviso con noi la scelta di presentare il documentario a Cannes.

Il titolo originale “Il dolce cinema” è poi mutato in “Il mio viaggio in Italia”. Per qualche motivo particolare?
Il primo era ispirato a La dolce vita di Fellini, quest’ultimo a Viaggio in Italia, film diretto da Rossellini nel 1953. Un’eredità, quest’ultima, che Scorsese sente più diretta. L’impianto del documentario, incentrato sullo strazio per un cinema che rischia di morire, aveva poi, effettivamente, poco a che fare con la dolcezza. E il viaggio esprime meglio il concetto di work in progress, di attività in divenire. Esplicito omaggio al cinema italiano del passato e implicito, aggiungo, a quello a venire.

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10 Dicembre 2001

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