Bridget Jones, diario di un surrogato

In principio fu Il diario di Bridget Jones (2001), ora è Bridget Jones's Baby: in uscita il terzo episodio sulla vita della zitella più famosa del cinema


C’era una volta Bridget Jones e c’erano il suo diario e due principi azzurri, Daniel Cleaver (Hugh Grant) e Mr. Darcy (Colin Firth): c’era una volta Renée Zellweger con il suo volto morbido e comune, come il suo corpo, e così nasceva quindici anni fa un’icona della fantasia cinematografica, un personaggio destinato ad imprimersi nella storia del cinema e nei favori della schiera di fanciulle e signore che in quel profilo fisico e biografico, così normali, prendevano per mano la dolce goffaggine e la essenziale ilarità e nell’identificazione, completa o parziale, concorrevano a tributare un’attrice che era riuscita a far funzionare un personaggio a tal punto da renderlo un mito e un riferimento d’ironia femminile.

Sono trascorsi quindici anni e un episodio di mezzo – Che pasticcio Bridget Jones (2004), abbastanza coerente con il primo – e sullo schermo ti ritrovi a guardare un surrogato del tutto: una Renée Zellweger trasformata dalla chirurgia, cosa che per un personaggio come Bridget Jones, così determinatamente definito dalla sua mimica e fisicità, è un danno non irrisorio, perché guardi una che ti sembra di conoscere, ma che ti lascia un po’ perplessa, di cui non riesci quasi più a “fidarti”.  

Il fascino maschile rimane una costante: Colin Firth, anzi, ha guadagnato con il tempo, mentre per la prima volta sullo schermo in questa “saga” ecco il nuovo principe azzurro, Patrick Dempsey (Derek della serie tv Grey’s Anatomy), altro uomo a cui le spettatrici non restano indifferenti; sono proprio le scene a tre ad insaporire un pochino la storia, un pochino… perché comunque è tutta molto prevedibile e scontato in ogni passaggio in cui la commedia usa espressamente il proprio linguaggio, le proprie chiavi di accensione del quadro comico, rimanendo, però, perennemente basica e capace di strappare solo qualche tiepida risata, forse più per affetto verso il personaggio della Bridget che fu… che per le situazioni del film.

Anche se, va documentato, una parte della numerosa platea, per lo più femminile, si lascia invece trasportare ancora, come al primo incontro, da una Bridget Jones impacciata che inciampa nel fango vestita di bianco, suscitando la stessa risata accorata che innesca la classica scivolata sulla buccia di banana la prima volta che la si vede sullo schermo, un “sempreverde” troppo facile, però; oppure, ancora, si sospira – letteralmente – in un paio di sequenze in cui l’essenza del principe azzurro si fa contemporanea ed esce dalle favole per trasferirsi momentaneamente in una Londra del presente, seppur, care ragazze, di favola sempre si tratti, perché di cinema stiamo sempre parlando. Insomma, scordatevi che Colin Firth vi prenda in braccio, voi e il vostro nono mese di gravidanza che vi rende quasi pachidermiche, e che, per amore, vi trasbordi a piedi per imprecisati chilometri nella clinica dove partorirete.

Senza pretesa, poi, una spolverata di omosessualità, di famiglie allargate, di disinvoltura sessuale, una strizzatina d’occhio all’attualità femminista: eppure, in una commedia, questo, per essere efficace, deve essere manipolato, reso motivo di fastidio o riso, non ingrediente accennato in mezzo al tutto, sperando che tanto basti buttar dentro un po’ di ingredienti che infine un minestrone lo si rimedia sempre. Nonostante tutto questo, comunque, Bridget e il principe azzurro… “vissero felici e contenti”. 

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15 Settembre 2016

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