BRANCALEONE O KUROSAWA?


Locarno festeggerà Monicelli, proiettando la copia restaurata de L’armata Brancaleone. La presenterà Michel Ciment, direttore di “Positif”, mensile da sempre in controtendenza rispetto ai “Cahiers du Cinéma”. Perché delegare un critico francese a omaggiare un film italiano d’epoca, riproposto da un festival che si tiene nel Canton Ticino? La ragione c’è: “Positif” è l’unica rivista francese, che non ha mai cessato d’interessarsi al cinema italiano. Inoltre è stata la più fervida sostenitrice della commedia, spina dorsale del nostro cinema, anche in polemica con la critica italiana, che la sottovalutava.
Siamo andati a rileggere quanto aveva scritto “Positif” nel 1966, quando il film di Monicelli venne presentato al Festival di Cannes, che festeggiava quell’anno il suo ventennale e per l’occasione aveva messo insieme una curiosa giuria, presieduta da Sophia Loren, nella quale comparivano ben quattro accademici di Francia: Marcel Achard, Maurice Genevoix, André Maurois e Marcel Pagnol. Per la cronaca c’erano anche altri uomini illustri, quali lo scrittore Jean Giono, il commediografo Armand Salacrou, l’attore Peter Ustinov e il regista Richard Lester. Va aggiunto, e il discorso vale soprattutto per le ultime generazioni di cinéphiles, che il festival di Cannes ante-’68 era molto diverso da quello attuale. Era un grande ventre che assorbiva tutto: cultura, battaglie politiche, proteste diplomatiche, ma anche episodi piccanti, scandali e starlettes. Le polemiche non reggevano a questo processo digestivo, che smussava ogni spigolo. Al punto che i film non sembravano la cosa più importante: non più di due ore al giorno, mentre non bastavano le cinque dita della mano per elencare le cerimonie quotidiane, consegne di premi, colazioni “in onore di”, soirées dedicate a questo o a quel paese, alla presenza del rispettivo ambasciatore. A riaccendere le polemiche, ci pensavano le riviste, che però intervenivano fuori tempo massimo.
“Positif”, per esempio, scrisse di Cannes, che si svolgeva come oggi a maggio, appena nel numero di novembre, impermalendosi ferocemente con il deliberato della giuria, la quale, su nove “capolavori” nel aveva segnalati solo tre e per meriti collaterali, mentre il “Gran Premio” (nel ’66 non esisteva ancora la “Palma d’oro”) era andato ex-aequo a Un uomo una donna di Lelouch e a Signore e signori di Pietro Germi, accusato di “estrema volgarità”. Per Robert Benayoun, che scriveva di Cannes su “Positif”, Signore e signori era semplicemente “ignobile”, così come Uccellacci e uccellini era noioso e pretenzioso, e che pena gli faceva lì dentro Totò, uno dei suoi “idoli”, capitato in un contesto che non era il suo, anche se aveva ottenuto una “menzione speciale”. In buona sostanza, la giuria aveva segnalato due film italiani su tre, dimenticando L’armata Brancaleone, per Benayoun uno dei nove capolavori citati, il solo che meritasse un premio, “esperienza plastica e autoriale inedita”, “cronaca picaresca di cavalleria medievale”, che “inserisce in scenografie di Bosch dei personaggi, tanto svincolati dalla loro epoca, quanto quelli di Madre Coraggio; personaggi che recitano esattamente come in un film di samurai e che sviluppano temi filosofici nello stile di Italo Calvino…”. Per correttezza va anche detto che una volta tanto “Cahiers” e “Positif” furono concordi nel giudicare positivamente un film italiano (caso rarissimo, che si è riverificato quest’anno con L’ora di religione). Infatti anche Jean-André Fieschi sui “Cahiers” parla di un Gassman “quelque peu kurosawien”, aggiungendo che si tratta di “cinema di puro divertimento, servito da una calligrafia spesso elegante, dove la stessa volgarità è frutto di un sapiente dosaggio”. Per curiosità sono andato a rileggere quanto io stesso avevo scritto all’uscita del film. Sotto un titolo che suonava “Documentario turistico sull’anno mille”, dicevo che, più di Vittorio Gassman, i veri ‘mattatori’ per l’occasione erano il direttore delle luci Carlo Di Palma, reduce dall’aver dato i colori al Deserto rosso di Antonioni, e lo scenografo e costumista Piero Gherardi. Esagerato? Può darsi. Mi consola però il fatto che Monicelli, contestando la favola del regista-demiurgo, mi abbia detto recentemente, proprio riferendosi all’Armata Brancaleone, di considerare coautori del film scenografo e direttore delle luci: “Spesso mi precedevano sulle locations, agivano di loro iniziativa e io giungevo a cose fatte, non trovando alcunché da modificare”.

Post-scriptum: Sia “Positif” che i “Cahiers” rimasero allora molto colpiti dalle attrici, Catherine Spaak e, soprattutto, Barbara Steele, icona dell’horror italiano di Riccardo Freda e Mario Bava. Che Irene Bignardi, direttrice del festival di Locarno lo tenga presente: le due attrici non dovrebbero mancare all’appuntamento.

autore
19 Luglio 2002

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