VENEZIA – Gioco di coppie nell’incubo. E’ Il contagio, opera seconda di Matteo Botrugno e Daniele Coluccini, in concorso alle Giornate degli Autori, in sala il 5 ottobre con Notorious. Film corale, tratto dal romanzo omonimo di Walter Siti, che fa della borgata romana una periferia di mondo contaminata con i quartieri alti e il malaffare dilagante, tra droga, solitudini, sete di soldi, sesso e potere. Echi post-pasoliniani ma anche precisi riferimenti alla cronaca giudiziaria, con l’inchiesta Mafia Capitale arrivata mentre i due autori romani, classe 1981, stavano scrivendo, insieme a Nuccio Siano, la sceneggiatura. Che si discosta dal libro, specie nella seconda parte, quando uno dei personaggi centrali, Mauro (interpretato dal loro attore Maurizio Tesei, già in Et in terra pax), fa il salto dal piccolo spaccio di quartiere e va a vivere in centro, coinvolto nella gestione di una cooperativa che ruba fondi pubblici dietro la facciata dell’aiuto ai migranti. I personaggi sono tanti e tutti legati tra loro: c’è l’ex culturista Marcello (Vinicio Marchioni), amante dello scrittore Walter (Vincenzo Salemme) che lo tira fuori dai guai con i suoi soldi. Marcello è sposato con l’amore di gioventù Chiara (Anna Foglietta), giovane donna già intristita dalla vita. C’è Simona (Giulia Bevilacqua) con i suoi sogni piccolo borghesi che Mauro cerca di soddisfare trovando il denaro come può. E nel cast figurano anche attori che hanno portato il testo a teatro come Carmen Giardina (la single borghese Lucia) e Nuccio Siano, regista della riduzione teatrale e co-sceneggiatore del film.
Pensate che le Giornate degli Autori siano la collocazione giusta per il film, sette anni dopo aver debuttato proprio qui con Et in terra pax?
Matteo. Qui, in questa sezione, ci siamo laureati e ci piace tornare. E’ una zona libera, con una linea coerente e con un’idea larga di autorialità che ci corrisponde. Per noi è una seconda casa.
Daniele. E’ bello tornare nella sezione che ti ha scoperto.
Il passaggio dall’opera prima all’opera seconda è spesso difficile e tormentato. Specie quando l’esordio è stato una rivelazione come Et in terra pax. Avete mantenuto una continuità forte con quel film nonostante il budget decisamente più alto.
Matteo. Qualsiasi budget è più alto di 30mila euro. Stavolta abbiamo potuto raccontare una storia in modo più ambizioso, riuscendo a sperimentare di più. Partire dal libro di Siti è stato decisivo: è un libro scritto da una grande penna, che ci ha fornito una certa sicurezza.
Avete mantenuto un’unità tematica, quella rappresentata dalla periferia romana adottando uno stile che passa dal realismo alla frammentarietà del videoclip a momenti sospesi.
Daniele. Rispetto al primo film ci sono dinamiche diverse ma una continuità di stile. Siamo partiti dal libro anche se quella Roma la conosciamo benissimo, è la Roma popolare fatta di persone vere, che parlano un linguaggio riconoscibile. Da lì ci siamo mossi per poi arrivare al mondo del potere.
Matteo. Volevamo un film che non avesse un inizio e una fine. Il contagio per noi è come un quadro. Se lo guardi da vicino noti tanti particolari anche insignificanti, ma se ti allontani capisci che quei dettagli non sono superflui. Ne esce un affresco, l’affresco di una Roma che diventa simbolo del nostro paese. In questo senso la narrazione non è lineare
C’è una spinta all’universalismo nel vostro modo di raccontare. Anche Et in terra pax era stato letto all’estero come un racconto che poteva riferirsi a tante periferie del mondo. Eppure, nello stesso tempo, parla proprio di Roma, una città che è purtroppo diventata simbolo di degrado e corruzione senza speranze.
Daniele. Il degrado di Roma, che poi è il degrado di un’intera società, è quello che Pasolini aveva predetto. Aveva intuito che si sarebbero livellate le classi, che la borghesia si sarebbe ‘imborgatata’ e che la borgata si sarebbe imborghesita. Quel mondo è figlio della cultura di massa, del consumismo, della droga. Eppure le persone conservano tracce di umanità. E’ questa umanità che ci interessa.
Matteo. Per questo ci fa piacere pensare che Il contagio sia anche un film d’amore e sull’amore, anche se non l’amore romantico.
Con il vostro primo film avete contribuito a inaugurare una nuova ondata di cinema legato alle periferie.
Daniele. Il nostro è un discorso politico. Sette anni fa ci hanno considerato degli innovatori perché la borgata non veniva più raccontata dal cinema. Oggi le persone si sentono abbandonate dalla politica e molti autori giustamente cercano di raccontare questa realtà dimenticata.
Il racconto del degrado e della criminalità ha prodotto anche lavori più superficiali, dove lo scavo nelle realtà romana è di facciata o utile a creare spettacolo.
Matteo. Non credo che le serie tv come Suburra siano superficiali. Il cinema è anche intrattenimento. Suburra è un crime italiano. Certo, se prendiamo Gomorra, la serie non ha la profondità del film di Garrone, ma è normale che sia così.
Daniele. La criminalità è stata spettacolarizzata in alcuni casi. Non nel nostro. La nostra Roma criminale è il contorno in cui si muovono le storie di tanti esseri umani. La criminalità è l’ambiente, l’humus, quello che ci interessa veramente sono i sentimenti delle persone.
Matteo. Noi non facciamo cinema inchiesta. Raccontiamo come un personaggio vede la sua vita demolita dalla sete di potere.
Mentre stavate scrivendo è esplosa l’inchiesta su Mafia Capitale. Quanto e come vi ha influenzati?
Daniele. I fatti di Mafia Capitale ci hanno dato il ‘la’ per parlare degli impicci fatti dalle cooperative. Nel 2008, quando Siti scriveva il suo romanzo, si parlava di palazzinari, come nella tradizione del malaffare romano. Mafia Capitale ci ha aperto scenari di gestione criminale dei fondi pubblici. Lo stesso Walter Siti ci ha incoraggiato a far entrare l’inchiesta nella nostra narrazione. Ci ha detto: ‘ve lo stanno servendo su un piatto d’argento, parlate dell’immigrazione’.
Il cast è molto ricco. Ci sono attori a cui siete da sempre fedeli, come Maurizio Tesei, attori presi dalla pièce teatrale, come Carmen Giardina, e attori inaspettati, come Vincenzo Salemme. Come avete composto questo mosaico?
Daniele. Alcuni attori dello spettacolo teatrale erano perfetti, perché non chiamarli? Per i protagonisti abbiamo cercato volti che il pubblico potesse conoscere. Perché no? Poi ovviamente c’è Maurizio Tesei che è il nostro attore feticcio.
Matteo. Salemme è un grande attore, sembrava aver scritto lui il personaggio dello scrittore e gli ha dato anche un pizzico di malinconia.
Daniele. Vincenzo ha capito tutte le sfumature del personaggio di Walter e Siti si è riconosciuto in lui.
Come ha reagito Siti vedendo il film?
Ha apprezzato il magma di personaggi che viene dal libro. E nella seconda parte, in cui ci distacchiamo dal romanzo, non si è sentito tradito. Volevamo soprattutto conservare e restituire le sensazioni di quando chiudi il libro di Siti.
Chi contagia chi?
Daniele. Il contagio è reciproco. Il film è costruito per coppie di personaggi, perché il contagio passa da uno all’altro.
Matteo. Il batterio a volte è l’unica forma di vita.
E qual è l’antidoto, la cura possibile?
Matteo. La cultura, la condivisione, il cinema. Questa è la cura. Porre delle domande, porsele insieme. Anche il fatto che lavoriamo in due è un atto di condivisione, una scuola di mediazione. Bisogna capire che il bene comune è più importante del bene del singolo. Due registi vuole dire: non è uno che sta comandando, ma due che stanno dirigendo.
Daniele. La regia è un atto politico perché devi mediare, scendere a compromessi. Farei fare un film a tutti i politici. Se sei riuscito a governare un set, senza imporre, puoi governare.
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