Bosnia Express, documentario di Massimo D’Orzi coprodotto da Luce Cinecittà, è uno dei titoli in concorso al Festival Visioni dal Mondo, che si svolgerà a Milano, in presenza, dal 16 al 19 settembre.
La pellicola procede a tappe, stazione dopo stazione, con nessuna pretesa di dire qualcosa in più sulla Bosnia e la sua gente, ma volendo raccontare con un tono intimo e penetrante la realtà di questo paese e rappresentare le contraddizioni tra un mondo che si sforza di crescere, pieno di vitalità, creatività e un mondo precipitato nell’estremismo etnico-religioso. La Bosnia è un luogo di frontiera. Molti hanno cercato di farla diventare un “non luogo”, terra di nessuno. “Ma la Bosnia è ed è sempre stata un crocevia di linguaggi, culture e stili diversi che vorremmo tentare di far rivivere nella memoria collettiva depurandoli da ideologie e fanatismi religiosi che in questi anni hanno avvelenato i pozzi di una convivenza civile durata secoli. Le donne protagoniste di questo film sono la risposta più alta contro la violenza di chi calpesta ogni umanità in nome di un dio o della superiorità di un’etnia sull’altra. Bosnia Express è il canto della resistenza delle donne alla violenza di una guerra voluta dagli uomini”.
Un treno attraversa lento il cuore del paese: Sarajevo, Tuzla, Srebrenica, Konjic, Mostar. Donne, religione, guerra, violenza, arte lanciati sullo schermo come dadi su una scacchiera o giocati alla roulette russa. In palio vita o morte, verità o menzogna. La macchina da presa indaga dietro il ritrovato ordine delle cose. Fin dove può giungere lo sguardo per conoscere? Una scuola di danza, i corridoi della facoltà di pedagogia islamica, le aule di musica rock, la collina di Medjugorjie, sono i luoghi da cui i personaggi muovono l’inchiesta. Ma come è possibile chiedere ai carnefici o alle vittime conto di un orrore.
“Si va in Bosnia per perdere i propri confini mentali – dice il regista – Per acquisirne di nuovi. Vi si entra chiedendo il permesso, preoccupandosi di fare attenzione a non innervosire nessuno, di togliere le scarpe e premunirsi di lavarsi le mani e i piedi prima di entrare in moschea e in men che non si dica si finisce su quella giostra che dopo ripetuti giri ci riporta al punto di partenza. La Bosnia è un luogo di frontiera. Ma quale frontiera? Frontiera di accesso per i musulmani in Europa? Per i cattolici spinti a Est che vorrebbero insinuarsi nelle terre storicamente governate dalla Chiesa d’Oriente? Frontiera di un’Europa che latita, frontiera d’Oriente e Occidente, di scismi ed eresie. O terra di nessuno, dei bosniaci. E basta. Lasciati soli e, talvolta, fieri di esserlo. Il libro di Leone mi offriva la struttura su cui far scivolare i miei pensieri, le mie visioni, i miei incanti, i miei innamoramenti. Schermito di fronte alla morte, rinascevo improvvisamente sulle note di un pianoforte toccato dalle dita di una bambina o col sorriso di una ragazza avvolta in un velo color porpora. Se la natura è neutrale le immagini non lo sono. Il primo intento era quello di indagare in quel groviglio di interessi politici, etnici, religiosi e criminali. Bosnia Express è la terza tappa di una trilogia iniziata nel 2003 con La rosa più bella del nostro giardino, proseguita nel 2004 con Adisa o la storia dei mille, un’avventura nella notte balcanica inseguendo la danza immobile dei carretti fantasma popolati da zingari impauriti che avevano smesso di ridere. Con Bosnia Express mi sono illuso di avere in mano il biglietto per documentare le scorribande, le innumerevoli atrocità, le complicità perpetrate a vari livelli. Ma ho finito per arrendermi di fronte ai volti di donna che mi fornivano un’altra verità. Se vuoi capire cosa è successo in ex-Jugoslavia guarda nei nostri volti. Ma la guerra non ha un volto di donna! Nel documentario, la parola, il commento, che inizialmente volevo banditi, sono stati uno strumento fondamentale per raccontare i mille interrogativi. Le immagini da sole non erano sufficienti a restituire quella complessità che percepivo alla fine di ogni giornata di riprese quando assistevo sconfitto al giudizio dei bosniaci che nemmeno tanto celatamente mi guardavano convinti di veder crollare l’ennesimo straniero giunto fin lì con tutte le buone intenzioni. Il documentario assume di volta in volta la forma di un diario intimo alternando rappresentazione, racconto e metafora, fra tragedia, ironia e poesia legate insieme da un filo sottilissimo. Un film pieno di interrogativi che il suo autore gira direttamente agli spettatori per riannodare i fili della Storia e vincere le lusinghe dei luoghi comuni rischiando di perdersi innumerevoli volte all’interno della giostra balcanica”.
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