Che peso hanno i media nel convincere il pubblico, specie quello delle donne, che il proprio corpo è inadeguato e che occorre rivolgersi alla chirurgia estetica? Qual è la fascia d’età che più diffusamente oggi in Italia si rivolge al chirurgo plastico e qual è il fatturato annuo delle cliniche specializzate e delle case produttrici di cosmetici, di protesi che “vendono” la bellezza?
Il documentario inchiesta Body shopping (appena ho diciotto anni mi rifaccio), presentato al Festival di Giffoni, prova a dare delle risposte partendo dal racconto di due giovanissime donne , appena diciottenni, Jessica che vuole ridursi il seno perché troppo pesante e fuori dalla “norma” e Carla della provincia di Bari, che decide di rifarsi seno, naso, mento dopo aver ricevuto da Lele Mora la promessa di lavorare come attrice in un telefilm per la tv italiana, accanto a Fabrizio Corona.
Nel raccontare le loro storie, le autrici del documentario – prodotto dall’Associazione Culturale “Non chiedeteci la parola” di Milano, con il contributo della Fondazione Cariplo – la giornalista e scrittrice Cristina Sivieri Tagliabue e la regista Daniela Robecchi, intervistano i più famosi chirurghi estetici italiani (famosi perché autori dei ritocchi ad attrici, vallette, ‘olgiettine’); alcuni docenti universitari impegnati in ricerche sul rapporto media e corpo; gente comune che dice la sua sulla necessità di ricorrere alla chirurgia estetica, pur non lavorando nel campo dello spettacolo; alcuni addetti al marketing di case farmaceutiche.
Il quadro che ne viene fuori è quello di un Paese, il nostro, al nono posto nel mondo in ricorso alla chirurgia estetica, con circa 300mila interventi annui. D’altronde i chirurghi plastici estetici sono sempre più presenti nelle trasmissioni televisive, in alcuni casi con format specifici e seriali che mostrano tutte le fasi delle operazioni in cui il cambiamento del corpo è mostrato come qualcosa di semplice, veloce, leggero, sempre soddisfacente e risolutivo dei problemi psicologici che muovono una persona a farne ricorso.
Chirurghi estetici che sono sostanzialmente per alcuni, come viene detto nel documentario, i nuovi psicologi o i nuovi sacerdoti a cui affidare il proprio senso di inadeguatezza, il proprio vuoto interiore, la propria bassa autostima, oltre che il proprio portafogli, considerati i costi non indifferenti che ogni operazione chirurgica richiede.
Tanto che alcune banche negli ultimi tempi, come racconta il documentario (lSantander, Monte dei Paschi di Siena, Etruria) si sono attrezzate per favorire prestiti e consentire a chiunque di pagare a rate il ritocco estetico desidera. Ne viene fuori la faccia di una parte di società ammalata di insicurezza, inconsapevole del valore umano, spirituale e dell’unicità del corpo umano che diventa invece merce di scambio, macchina con pezzi intercambiabili, frutto di un consumismo capitalistico che non riesce a rendere falsamente felici i propri clienti se non attraverso il mercato.
La generazione che in percentuale maggiore si affida al chirurgo estetico è quella fra i 25 e i 35 anni, per la maggioranza donne, ossessionate come gli uomini dai seni prorompenti, dai nasini a punta, dai fianchi stretti, proposti continuamente dalla tv e dalla pubblicità, in un’inconsapevole ideologia razzista verso volti, corpi diversi dai modelli abitualmente venduti. C’è insomma una fiorente industria interessata a non farci sentire sicuri e a speculare su quest’insicurezza che ancora una volta rende una buona parte del pubblico, assolutamente vulnerabile nel suo essere cliente e non più persona.
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