L’anno scorso al Festival di Berlino, dopo una latitanza piuttosto lunga, è ricomparso in concorso un film italiano. Era Le prime luci dell’alba di Lucio Gaudino. Le recensioni degli inviati italiani sono state impietose.
Confortati dal fatto che un quotidiano tedesco, stendendo a bilancio la rituale classifica, mise il film di Gaudino all’ultimo posto, molti nel commento finale si chiesero se, stando così le cose, non sarebbe stato meglio protrarre oltre la nostra latitanza.
“Prime luci dell’alba”, davvero il peggiore?
Altri, tentando una battuta di spirito, trassero da quel posto in classifica un motivo di speranza: peggio di così non potevamo andare; nel futuro potevamo soltanto migliorare la nostra posizione. Altri ancora, affabulando su una ipotetica animosità di Moritz de Hadeln, il direttore del festival, nei nostri confronti, si domandarono se non avesse scelto Le prime luci dell’alba apposta per farci dispetto. Al che de Hadeln reagì ufficialmente, contestando i giudizi dei critici, italiani e stranieri, e ribadendo che il film stava benissimo in concorso, che non si pentiva di avercelo messo e che, anzi, i due protagonisti, Gianmarco Tognazzi e Francesco Giuffrida, avrebbero meritato ex-aequo il premio per la migliore interpretazione maschile.
Comunque sia, un disastro. Ma adesso leggo su “Filmcomment”, serio e autorevole bimestrale statunitense, che Le prime luci dell’alba, con La strada verso casa di Zhang Yimou e Gocce d’acqua su pietre roventi di François Ozon, è stato uno dei migliori film “non statunitensi” in competizione l’anno scorso a Berlino: “small, characterful and defiantly sui generis”. Testuale a pagina 63 del numero di maggio-giugno 2000. Segue nella pagina successiva un’analisi critica che vi risparmio per motivi di spazio. Comunque, “Filmcomment” non è una pubblicazione clandestina: pubblicata dalla Film Society del Lincoln Center ha alle spalle 36 anni di vita ed è visitabile sul sito www.filmlinc.com.
Certo, un solo giudizio non fa primavera. Ma mi domando quanti altri ci siano, che noi non sappiamo. Perciò suggerisco all’agenzia Italia Cinema di mettere in bilancio la modica spesa di un bollettino da inviare periodicamente a tutti i critici e giornalisti cinematografici italiani, dove siano raccolti i giudizi, buoni o cattivi non importa, che la stampa specializzata straniera dà dei nostri film. Ciò per avere un quadro esatto della situazione e non fidarsi delle idee ricevute, per poi piangersi addosso. Nella speranza infine che queste notizie trovino un piccolo spazio sulla stampa quotidiana e periodica, accanto al grande spazio che essa dedica ai film con Angelina Jolie, che magari debbono ancora iniziare.
Positif e il corto di Bentivoglio
Non credo che sia una ricerca utopistica, come quella di coloro che stanno all’ascolto di eventuali voci di extraterrestri provenienti dallo spazio profondo. Personalmente non sono un ricercatore, però mi cade l’occhio su pagina 69 del numero di dicembre di “Positif”, dove, in un servizio di Pierre Eisenreich sulla 12esima edizione del festival “Premier Plans” che si svolge annualmente ad Angers, leggo che, se valeva la pena di ricordare un film della selezione, questo era Tìpota, incantevole cortometraggio dell’attore italiano Fabrizio Bentivoglio.
“Durante trenta minuti”, scrive Eisenreich, “si assiste agli incontri magici di una famiglia di nomadi, che erra da rifugio in rifugio e un giorno viene sorpresa da una troupe che sta girando un film. Come in Underground Bentivoglio mette in scena un film nel film ed eleva la sua poesia al livello di quella di Paradzanov, grazie alla eccezionale musicalità del montaggio”.
Direte che Tìpota resta pur sempre un cortometraggio e quindi “non fa mercato”. Infatti. Posso aggiungere che anche il passaggio a un festival “non fa mercato”. Però qualcuno mi dovrebbe spiegare perché mai di qui a poco vedremo suoi nostri schermi sia il film di Zhang Yimou, sia quello di Ozon, citati da “Filmcomment”, mentre non mi risulta che succede altrettanto all’estero con il film di Gaudino. Non sarà forse perché i film cinesi, così come quelli iraniani, così come i film dei nuovi registi francesi, prima di “sfondare”, sono stati preceduti dalla diffusione dei lusinghieri giudizi raccolti nei vari festival internazionali, preparando così la strada al loro successo commerciale?
L’exploit del ’91
Ma torniamo a Berlino, dove dopo il favoloso exploit del 1991, dal quale tornammo a casa con l’Orso d’Oro a La casa del sorriso di Ferreri, l’Orso d’argento a La condanna di Bellocchio, il premio per la miglior regia a Ultrà di Ricky Tognazzi e il premio del Consiglio ecumenico a Il viaggio di Capitan Fracassa di Ettore Scola, non abbiamo più raccolto nemmeno mezzo riconoscimento.
Qui conviene riassumere la storia di questa manifestazione, nata nel 1951, come uno dei tanti oggetti esposti a Berlino Ovest “vetrina del mondo libero”, quindi con finalità più politiche che artistiche. Difatti per anni i paesi dell’Est europeo lo presero per una provocazione e lo disertarono. Ciò non servì a vaccinarlo dalle provocazioni sessantottine e antiamericane, tanto che nel 1970, di fronte a un film tedesco (O.K. di Michael Verhoeven, il marito di Senta Berger) che “mimava” provocatoriamente le atrocità commesse dai marines in Vietnam (le stesse che abbiamo visto in Vittime di guerra di Brian De Palma), il presidente della giuria, George Stevens, prese il cappello e se ne andò, costringendo gli organizzatori a dichiarare il festival chiuso a metà gara.
Nel 1974, in seguito alla distensione Nixon-Breznev, i sovietici accettarono per la prima volta di partecipare, seguiti a ruota dai paesi satelliti.
Da quel momento Berlino cambiò pelle: da simbolo della guerra fredda divenne il luogo ideale d’incontro tra il cinema di Est e dell’Ovest. Con un solo incidente nel 1979: allorché la presentazione, sia pur fuori concorso, del Cacciatore di Cimino provocò la reazione dei sovietici, che ritirarono delegati e film, seguiti anche questa volta a ruota dai paesi satelliti, con l’unica eccezione della Romania di Ceausescu, che amava distinguersi dalle decisioni unanimi prese dai paesi del Patto di Varsavia.
L’estate piaceva al nostro cinema
Per quanto riguarda l’Italia, la cosa più importante non fu il travaglio politico del festival, bensì il suo cambio di data. Sino al 1977 si svolgeva tra giugno e luglio. Dal 1978 passò a febbraio. Ebbene, si dà il caso che sin quando il festival mantenne le date estive, il cinema italiano raccolse 22 riconoscimenti tra Orsi e menzioni varie. Da quando invece si trasformò in vetrina invernale i riconoscimenti furono soltanto 13, sino a sparire del tutto dopo il 1991.
Ora è vero che il nostro cinema nell’ultimo ventennio ha perduto quota; ma di certo il cambio di data ha avuto la sua influenza. Per il semplice fatto che svolgendosi a un mese di distanza dagli Oscar e a tre da Cannes, da un lato ha indotto Hollywood a trasformarlo in un preludio alla sua cerimonia, convogliando a Berlino i suoi pezzi più pregiati, dall’altro ha posto i produttori italiani di fronte a un bivio: dove andare? Berlino o Cannes? E quasi sempre essi hanno scelto Cannes, creando così un tormentone a non finire che spesso ha mandato in crisi i reciproci rapporti.
Va anche detto a discolpa dei nostri produttori che, se la Francia è restia a comprare i nostri film, la Germania lo è ancora di più.
A quanto mi risulta nessuno dei trionfatori del 1991, l’ultima edizione buona per il nostro cinema, ha trovato uscita sugli schermi tedeschi. Si riuscirà quest’anno a invertire la tendenza?
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