PALERMO – A poche ore dal debutto nelle sale, Eterno Visionario, il nuovo film di Michele Placido incentrato sulla vita di Luigi Pirandello, arriva nel luogo che più gli compete: le Giornate del Cinema per la Scuola di Palermo, la stessa tappa da cui era passato un anno fa un altro film targato 01 Distribution, Io Capitano, prima del suo straordinario successo internazionale. Qui, i docenti provenienti da tutta Italia hanno l’occasione di scoprire in anteprima gli aspetti più nascosti di un autore monumentale, che per l’occasione ha il volto di Fabrizio Bentivoglio.
In Eterno Visionario, il suo Pirandello, sul treno che lo porterà a ritirare il Premio Nobel, rivive gli ultimi anni della sua vita, stretto tra le sofferenze familiari dettati dalla malattia mentale della moglie Antonietta (Valeria Bruni Tedeschi) e la profonda infatuazione artistica nei confronti di Marta Abba (Federica Vincenti). Un artista di valore straordinario, ma prima di tutto un uomo con i suoi affanni e le sue fragilità. Nelle sale dal 7 novembre 2024.
Fabrizio Bentivoglio, qual è l’emozione di portare questo film qui a Palermo, davanti ai docenti e agli studenti?
Prima di ieri ad Agrigento, il film era stato proiettato solo alla Festa del Cinema, dove lo ha visto un pubblico adulto e tutta la famiglia Pirandello. Alla fine della proiezione, il figlio di Stefano e mi ha regalato un libro scritto da lui, in segno di agnizione. Ti confesso che questo riconoscimento della famiglia Pirandello, di cui nessuno sa, vale più di qualunque Oscar, Golden Globe o qualsiasi altro premio. A parimerito di questo riconoscimento, ieri ad Agrigento i suoi concittadini, che si sentono a ragion veduta i suoi diretti discendenti, mi hanno detto di averlo riconosciuto.
Le prossime generazioni, quando penseranno a Pirandello lo immagineranno con il suo volto.
Oggi avremo questa ulteriore verifica, perché se penso a come è stato insegnato a me a scuola, manca un pezzo. Credo che ancora oggi, a scuola ti mettano subito davanti le opere. Ti fanno leggere Il fu Mattia Pascal, ma senza conoscere la sua vita, quindi i motivi che hanno ispirato la sua scrittura, non riesci a capire fino in fondo quello che hai letto.
La sofferenza.
Esatto, è una parola chiave. Perché uno che dice io scrivo per vendicarmi di essere nato è uno che quella la vita l’ha penata.
Infatti, più che la musa Marta Abba, il ruolo cruciale nell’ispirazione di Pirandello è stata la moglie, con la sua follia e con tutto il dolore che gli ha inferto.
Secondo me la gelosia della moglie non è legata a Marta Abba. Lei è gelosa della scrittura. Sei sposata con il più grande scrittore e sei gelosa dei personaggi che lo vanno a visitare. Gli dice a un certo punto: vai a scrivere che è l’unica cosa che sai fare. Questo non gli ha impedito di amarla, lui non avrebbe mai voluto ricoverarla, era contrario. Purtroppo i film devono durare un’ora e mezza e quindi devono omettere tante cose, ma lui con i figli aveva armato una sorta di recita, per farla sentire a casa. Lei andava assecondata fino a un certo punto, poi contraddetta. Ma sempre con una prospettiva che prima o poi sarebbe tornata a casa, cosa che non è mai avvenuta, anche se lui non desiderava altro.
Due delle scene più memorabili sono quella delle prove dei Sei personaggi in cerca di autore, di stampo inevitabilmente teatrale, e il monologo sulla vecchiaia in cui guarda dritto in camera come se fosse uno specchio, cinema puro. Come ha fatto a far convivere questi due registri recitativi?
È sempre una questione di misura, come in tutte le cose, nel nostro mestiere sommamente. Un po’ di più e sarebbe troppo, un po’ di meno e sarebbe troppo poco. Va centrata quella misura che è l’unico modo per fare le cose, ed è una misura che va ritrovata ogni volta. Devo dire che per un attore, lavorare con un regista che è anche un attore, un grande attore, in questo caso, rende tutto più facile, anche più gioioso, più bello da fare. Sa perfettamente in che situazione ti stai trovando e magari non c’è bisogno neanche di tante parole, basta uno sguardo. Questo film non è solo il frutto delle 11 settimane di riprese, ma è il frutto degli oltre 40 anni di conoscenza con Michele, di amicizia. Abbiamo fatto cinema, teatro, poesia, abbiamo fatto tutto assieme e questo è il frutto di questo rapporto di lavoro e umano.
Si può dire che questo sia uno dei ruoli più sfidanti della sua carriera: un personaggio monumentale, meridionale, di cui ripercorre diversi periodi della vita, cambiando ripetutamente aspetto e sfumature emotive. Ha avuto timore quando ha saputo di doverlo interpretare?
Inevitabilmente sì. Per fortuna Michele mi ha parlato un anno e mezzo prima, non c’era nemmeno una sceneggiatura. Mi ha dato tutto il tempo per potermi avvicinare con lentezza alla materia. E quindi, a poco a poco, le vene ai polsi tremano meno ed entri di più nel merito della questione. Poi quando si batte il ciak, si fa, bisogna fare, senza criticarsi, emozionarsi. C’è quello da fare.
A proposito di ciak, secondo lei perché Pirandello era così affascinato dal cinema?
Perché trova meraviglioso che da quel caos possa venire fuori qualcosa di sensato, non solo di sensato ma di emozionante. E questo lo stupisce, lo meraviglia. Perché lui è ordinatissimo. Considera che lui scrive a mano e quando c’è una cancellatura lui non va avanti, riscrive tutto daccapo. Nel suo lavoro mira alla perfezione, perciò il cinema, che è qualcosa di imperfetto per natura, lo sbalordisce.
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