Beau ha paura, e anche noi. Raccontare l’ultimo film di Ari Aster, giovane regista portato in palmo di mano dagli appassionati della nuova generazione di cinema horror, ma anche molto divisivo dopo l’incredibile esordio in Hereditary e Midsommar, è quasi impossibile. Il film, in sala dal 27 aprile con I Wonder Pictures, è un incubo a occhi aperti.
La storia non è complicata, lo sono i modi. Alquanto peculiari, quando non proprio bizzarri. Prima di tutto sono tanti, perché Beau ha paura non rinuncia a nulla e seleziona le possibilità di messa in scena come fa il cervello per i sogni: se si può pensare, si può usare.
Le tre ore di racconto di Beau ha paura sono un viaggio terribile e imprevisto tra immagini e associazioni libere, costruite secondo una drammaturgia del subconscio. Si è già scritto che è il “Quarto potere dei film sul rapporto madre e figlio”, e forse è vero. Perché Beau ha paura sembra sceneggiato da Freud, senza filtri che ne traducano o trucchino le immagini per formulare una struttura coesa. Un incubo freudiano senza via di scampo.
Il protagonista di Beau ha paura, un disorientato Joaquin Phoenix, affronta un’Odissea senza fine, che intreccia sorprese, pericoli e impreviste risate. Beau, che si legge “bò”, è un uomo paranoico, in preda a ogni paura. Non esce di casa, vede pericoli ovunque. Finiamo per credergli, nella soggettiva di un personaggio ripiegato nei traumi della propria vita. Vuole tornare a casa dalla madre in occasione dell’anniversario della scomparsa del padre, morto sul colpo al suo concepimento. Ogni tentativo fallisce e l’obiettivo si allontana mentre affronta un percorso folle che lo conduce dentro di sé, dove i traumi del passato scalano il sommerso per venire a galla e portarlo giù con sé.
È il sogno gargantuesco di un regista mai così inserito nella cultura ebraica, di cui è figlio. Tra colpe, rapporto con la madre e mete solo apparenti di un deserto senza fine. Accanto a Phoenix anche Emy Ryan, Nathan Lane e Stephen McKinley Henderson in una produzione A24 dalla testa ai piedi.
Hereditary era la storia di una madre con conflitti irrisolti con la generazione precedente, riversati, in una squisita veste paranormale, sulla successiva. Il film era tutto nell’incredibile monologo di Toni Colette, quando si scagliava senza pietà sul figlio, un terrorizzato Alex Wolff. Midsommar, acclamato per la sua capacità di ricavare l’oscurità del anche nella luce accecante di un inquietante festival nordeuropeo, si apriva proprio con la morte dei genitori della protagonista, interpretata da Florence Pugh.
Sicché Ari Aster sembra seguire un filo, che in Beau ha paura non desidera in alcun modo organizzare per matasse e gomitoli. Anzi. Il regista sceglie la via dell’accumulo, del ritmo forsennato, con cambi e scatti repentini. Una spaventosa maratona che sfida protagonista e spettatore a ogni difficilissimo e allucinante passo.
È senza dubbio un film da vedere in sale piene, pienissime. Il vero spettacolo è la reazione del pubblico. Qualcuno, all’anteprima per la stampa, si lancia in interpretazioni, molti invece sembrano volerselo scrollare di dosso. È un incubo, nel senso di sfida all’inconscio – e dell’inconscio – impossibile da vincere, ma anche da ignorare. Una visione che resta, fosse anche solo per la sorpresa continua che Aster ha preparato per i suoi spettatori.
Beau ha paura è il film più libero del regista. Per durata, impegno, intenzioni. Fa paura, ma anche tanto ridere. Perché Ari Aster non pulisce le scene, non rimastica il subconscio galoppante e libera le briglie dell’assurdo.Più Beau avanza, più l’incredibile – il mostruoso – vince su ogni cosa. È un film quasi surrealista, un dada ad alto budget, che sfrutta ogni occasione per rubare dal teatro e dalla fantasia in nome di un onirismo eccessivo che per il suo regista, sembra, potrebbe avanzare all’infinito.
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