Barbara Cupisti: Madri coraggio


Con sé portano fotografie, oggetti, ricordi dei loro figli vittime del conflitto israelo-palestinese, è il loro modo di condividere, in un incontro collettivo, il loro dolore mai placato. Sono madri, di entrambi le parti in guerra, che hanno perso figli e figlie in un’azione militare o di repressione, in un bombardamento o in un attentato, che non cercano vendetta ma la reciproca comprensione, spezzando con un gesto di perdono e riconciliazione il circuito di una guerra senza fine.

Barbara Cupisti, un passato di attrice in particolare del noir italiano degli anni ’80, è al suo esordio con il documentario Madri, a Venezia Orizzonti, prodotto da Rai Cinema e Digital Studio, e racconta queste donne israeliane e palestinesi, di cultura e estrazione sociale diverse, che ogni giorno fanno i conti con la perdita dei loro figli. Un viaggio attraverso il dolore tra Tel Aviv, Nablus, Gaza, Jenin e Gerusalemme, costruito con le loro testimonianze dirette, i video familiari, i materiali di repertorio e amatoriali, le immagini strazianti di vittime di attentati o di bombardamenti, spesso inedite da parte palestinese, talvolta epurate, le disperate corse in ospedale. Immagini utilizzate dopo una lunga discussione perché all’inizio c’erano solo le storie delle madri per non appesantire la narrazione.

Come è nata l’idea del documentario?
Ho proposto a Rai Cinema un backstage sul documentario Viaggio di Gesù che stava producendo, scegliendo però come punto di riferimento quello della madre Maria, consapevole del destino già scritto del figlio, quello del martirio. Pensavo di arricchire il backstage con interviste a donne israeliane e palestinesi, a madri che, come duemila anni fa, hanno la stessa consapevolezza che i destini dei loro figli sono in parte segnati, perché nascono in una terra di conflitto. Rai Cinema ha detto no a questo backstage e sì invece all’idea di raccontare solo le madri di oggi.

La struttura di “Madri” inizialmente era diversa?
Aveva due linee narrative: da un lato le madri, dall’altro gli ostacoli nel realizzare questo lavoro. Abbiamo infatti girato con un’unica telecamera, passata di volta in vota a tre troupe diverse: quella israeliana non può accedere nei territori occupati, quella palestinese non può passare dalle strade israeliane, e ancora quella palestinese di West Bank non può andare a Gaza. C’era così il racconto di questo passaggio di testimone, con episodi rocamboleschi, con l’operatore israeliano che spiegava all’omologo palestinese, con difficoltà di linguaggio, l’impostazione stilistica e fotografica. Ma la scaletta è poi saltata e ho abbandonato questa parte di viaggio per problemi di lunghezza, poiché si rischiava di sovraccaricare il racconto così emotivamente importante. Abbiamo optato per le storie private, rinunciando comunque ad altre testimonianze di madri, e alla fine utilizzandone 15, di cui 10 ampie.

Perché ha voluto iniziare con il suicidio del giovane militare israeliano?
La sua storia è un incipit forte, non volevo un’analisi politica, ma un’opera che fosse un manifesto per la pace. Una riflessione sul dolore e sull’inutilità delle guerre, valida per qualsiasi altro conflitto del mondo. Volevo andare oltre i numeri delle vittime che ogni giorno siamo così abituati a leggere e ascoltare, da dimenticare i drammi privati che sottendono.

Quando ha girato?
Dopo i sopralluoghi dello scorso dicembre, un mese e mezzo di riprese realizzate tra fine gennaio e marzo di quest’anno. Nello stesso periodo ho girato un altro documentario, ora in fase di montaggio, sulla vita dei bambini palestinesi sotto l’occupazione israeliana. Sono partita con una scaletta precisa che ha conosciuto delle modifiche, è il caso della testimonianza della madre del kamikaze palestinese che abbiamo ricercato stando lì.

All’inizio viene letto il testo di una bellissima lettera, chi l’ha scritta?
Gila Katsav, moglie del presidente uscente di Israele Moshe Katsav. Abbiamo preferito lasciarla appena accennata, si tratta di una lettera indirizzata nel 2001 alle mogli di tutti i capi Stato e alle donne più potenti e importanti del mondo. Un’iniziativa che le è costata un totale isolamento pubblico. Da allora questa donna è stata oscurata, tant’è che ho trovato la lettera su un sito palestinese. Volevamo intervistarla e che fosse proprio lei a leggerla ma dopo la vicenda del marito (ndr. l’accusa di molestie sessuali a una sua collaboratrice) lei ha preferito rinunciare ma ci ha autorizzato a riprendere la sua lettera, purché si capisse il meno possibile la provenienza.

Il suo documentario riprende l’esperienza dell’associazione The Parents Circle che da alcuni anni lavora sul dialogo tra le parti in conflitto?
Sì, ma non vuole essere un documentario su questa associazione, che peraltro si rivolge alle famiglie intere e non alle sole donne. Del resto già il documentario Encounter Point, che ha vinto tanti premi, racconta il lavoro dell’associazione, accreditata all’Onu e conosciuta dai capi di Stato. Noi abbiamo fatto parlare le donne, avvenimento che per la società palestinese, fondata sulla cultura araba e musulmana, non è usuale. Inoltre la particolarità del documentario è che nell’incontro finale le madri palestinesi per la prima volta, tranne una, conoscono le madri israeliane.

“Madri” si vedrà in Israele e Palestina?
Stiamo programmando una proiezione in contemporanea a Ramallah e a Tel Aviv. A Venezia abbiamo invitato due esponenti di The Parents Circle, i responsabili palestinese e israeliano.

E in Italia?
Piuttosto che la grande distribuzione in sala mi piacerebbe organizzare delle proiezioni con la musica dal vivo, la situazione ideale per incontrarsi e discutere.

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