Baratta e il buco in mostra


VENEZIA. Per fortuna che l’ottimismo e la buona volontà non mancano al pragmatico Paolo Baratta, presidente della Biennale d’arte alle prese con un’edizione che minacciava di passare alla storia come la “Mostra del buco”, per usare le sue stesse parole riferite alla voragine che ha preso il posto del nuovo Palazzo del cinema, progetto peraltro ormai accantonato. “Il buco c’è ed è più bello e più grande che pria. Ma il vero buco sarebbe stato lo smarrimento delle istituzioni e questo non è il caso della Biennale”, sottolinea Baratta. Così dopo i 37 milioni spesi per trovare l’amianto e un telo bianco che al momento copre l’intera voragine, Baratta è uscito dal disastro annunciato puntando al restauro e alla riqualificazione delle strutture esistenti. Con una novità: l’accordo firmato con il Comune di Venezia sul passaggio degli spazi del Lido alla Biennale, che li ha avuti in concessione e dunque la possibilità di intervenire sugli stessi, con un costo di 3,8 milioni.

La rinascita parte dalla valorizzazione della storia della Mostra, a cominciare dal restauro della Sala Grande che recupera lo spirito originario, di quel lontano 1937 quando venne inaugurata. Si aggiungono la riqualificazione dei portici adiacenti all’Excelsior, le cosiddette Piccole Procuratorie e del Lion’s Bar, e dell’intero terrazzo sempre dell’Excelsior libero da volumi e allestimenti a disposizione degli ospiti. I prossimi interventi riguarderanno la Sala Darsena, passando dai 1300 ai 1430 posti, e la Sala Volpi che garantirà alla Sala Grande un foyer di dimensioni adeguate.

 

E al posto del buco? La risposta di Baratta è interlocutoria: “Una struttura polifunzionale, che completi il rinnovo del Lido con elementi di supporto alla Mostra, quali alcune piccole sale per le singole proiezioni industry”.
Chissà se il 71enne manager milanese in scadenza , già due volte presidente della Biennale dal ’98 al 2002 con il ministro Giovanna Melandri e dal 2007 grazie a Francesco Rutelli, potrà avvalersi di un terzo mandato? I rumors parlano di buoni rapporti con il governatore del Veneto Luca Zaia, non altrettanto con il ministro Giancarlo Galan che nel frattempo sarebbe favorevole a lasciare in sella, dopo 8 anni, il direttore Marco Müller.

Forse non andrà così, per ora nomi non se ne fanno o no si dicono per bruciare i candidati.
Ma un siluro alla gestione Müller arriva oggi da un editoriale sulle pagine del ‘Corriere della Sera’, intitolato ‘Il gigantismo populista’ a firma di Paolo Mereghetti. Il critico se la prende con una Mostra eccessiva e sterminata per quantità di titoli presenti: “La verità è che ormai, come in politica, anche nel cinema si sta facendo largo un ‘populismo cinefilo’ che tende a voler accontentare ogni piccolo (o grande) gruppo di pressione”.

Müller si consola con le parole di apprezzamento venute dal presidente della giuria veneziana Darren Aronofkky, dai giurati Mario Martone e Alba Rohrwacher, che rispettivamente parlano di una competizione ritenuta: “una lista di titoli entusiasmanti”, “molto interessante per il pubblico e per i cinephiles”, “bellissima”.
In particolare il regista di The Wrestler, Leone d’oro nel 2008, dice che “giudicare” è un termine forte che lo spaventa, “non siamo giudici, ma non ho un’idea precisa, un metodo su come svolgere questo mio compito. Di sicuro onestà, apertura a tutti i film senza pregiudizio, ascoltando e dialogo con gli altri componenti della giuria. Così del film visto stamattina, (ndr. Le idi di marzo?), abbiamo discusso animatamente per mezz’ora”.

Comunque la giuria non è di per sé determinante del successo di un’opera, la cui avventura comincia quando arriva in sala. Vincere dei premi a volte aiuta e a volte no. Questo significa che le giurie non vanno prese troppo sul serio. E Aronofkky alla fine parla di una Venezia “fantastica e crudele, come le montagne russe”, uno straordinario parterre di nomi in gara e di film diversi.

E di tutte prime mondiali ricordano Baratta e Müller.

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