VENEZIA -Una spacciatrice che offre pasticche come nel sacramento della comunione. Questa è l’immagine fortissima che la regista esordiente francese Camille Lugan ha chiesto di mettere in scena ad Asia Argento. L’attrice italiana, infatti, è tra i protagonisti di Selon Joy – film in concorso alle Giornate degli Autori di Venezia 81 – dove interpreta Mater, la leader istrionica di un gruppo di spacciatori di periferia. Il suo opposto è la protagonista, Joy, un’orfana cresciuta da un prete in una piccola chiesa che incarna il concetto spirituale di grazia. Tutto cambierà quando incontrerà e si innamorerà di uno dei componenti della banda di Mater.
Asia Argento, in questa fase della sua carriera sta alternando progetti molto commerciali a opere prime come Selon Joy. Cosa cerca in progetti come questo?
Ho fatto un passo indietro per qualche anno dalla recitazione. Avevo bisogno di rinnovare il desiderio, perché lo faccio da quarant’anni. E quando l’ho ritrovato, forse più forte che mai, mi sono messa in gioco. Ho studiato e ho lavorato con tanti coach. Mi sono detta che se avessi potuto mettermi al servizio di qualche giovane autore, come sono stata aiutata io quando ho iniziato a dirigere, lo avrei fatto. Sarebbe dovuta essere una storia in cui credevo, ovviamente, ma non c’è differenza tra grande e piccolo ruolo o grande e piccolo film. C’è il lavoro e la gioia di farlo. Grazie a Dio posso permettermi di fare film più piccoli di budget, in cui magari ho la possibilità di sperimentare di più. L’entusiasmo dei giovani rinnova il mio.
Come è stato il rapporto con i giovani attori di questo cast? È stata una mentore per loro come nel film?
Ho avuto un bel rapporto soprattutto con i ragazzi del mio gruppo. Giravamo di notte e fra un’inquadratura e l’altra ci mettevamo tutti in una stanza e parlavamo. Abbiamo condiviso le nostre esperienze: loro che iniziavano e io che lo faccio da una vita ma che stavo ricominciando. Eravamo tutti alla pari. Non ero la mentore, non sentivo di essere la mamma: eravamo tutti attori.
Come ha lavorato sul suo personaggio?
Mi sono ispirata a Michael Jackson e alla sua Wonderland. Amava stare con quelli più giovani di lui perché lui si sentiva bambino. E il mio personaggio lo vedevo un po’ così. Succede quando sei dipendente dalle droghe: inizi a usarle in periodo adolescenziale e la tua crescita emotiva si ferma. Lei è rimasta un po’ ragazzina e comunica a livello un po’ infantile, basico.
Alla luce del suo passato di dipendenze, è stato catartico interpretare un personaggio di questo tipo?
No, non è stato catartico. Più che altro ho visto che riuscivo a farlo senza avere il desiderio di usarlo. E già questo è tanto.
Ha avuto un po’ di timore ad accettare il ruolo?
No. Ma il mio personaggio doveva fumare le sigarette, cosa che avevo appena smesso di fare, e ho chiesto alla regista: guarda ti prego almeno le sigarette evitiamole.
Vi siete confrontate sui temi del film? Ad esempio la metafora religiosa che lo pervade: la ricerca della grazia.
I temi filosofici sono fuorvianti, perché nella vita non si fa filosofia ma si vive. Lei ha mandato dei messaggi chiari attraverso la sceneggiatura. Io ho fatto il mio lavoro da sola, ho sviluppato il personaggio e l’ho proposto. Lei mi ha scelto perché conosceva il mio lavoro. Ho studiato molto per questo ruolo perché non prendo più sottogamba niente nella vita. Per me non è scontato che io continui a fare questo mestiere. È come se avessi un numero limitato di proiettili e cerco di colpire sempre il bersaglio.
In questo film parla diverse lingue – il francese, l’inglese. Dopo tanti anni è ancora stimolante cimentarsi in altre lingue?
Più che altro mi piace viaggiare per il mondo e lavorare con persone di tutto il mondo. Chi non lo amerebbe? È stato uno stimolo in più soprattutto per il francese. Non sono madrelingua e quindi è stato uno sforzo e ho studiato tanto per quelle poche battute. Erano anni che non facevo un film in francese. Ci vuole un’enorme concentrazione quando non è la tua lingua. Recitare in un’altra lingua è difficilissimo. Con l’inglese è più facile, perché penso in inglese.
La rassegna “Martedì è horror”, dedicata ai classici di suo padre, ha avuto un grande successo. Quale dei suoi film vorrebbe rivedere sul grande schermo?
Non rivedo i miei film, non mi interessa. Perché li ho già fatti. Non sono una persona che custodisce ricordi o le copertine dei giornali. Io butto tutto.
Non vive nel passato? Nessun approccio nostalgico alle cose?
Assolutamente. Zero. Vedere i miei film sullo schermo lo trovo spaesante: questo grosso viso che domina. Sarebbe bello se i giovani in Italia – in Francia è diverso e la gente frequenta molto di più i cinema – venissero attirati dei vecchi film. Ci sono dei cinefili, mio figlio per esempio lo è. Ma pure i preti pensano che sarebbe bello che tutti venissero in chiesa, però non ci va più nessuno. Bisogna essere un po’ più realisti. Credo che la gente non abbia più bisogno di questo rito collettivo. C’è un grande individualismo. È un approccio più onanistico, in cui tutti vogliono avere un’esperienza solitaria e personale. A tu per tu.
Forse è per questo che le serie hanno sempre più successo?.
Con i social si è passati dal romanzo all’aforisma. Una frase e via. L’attenzione si concentra su un concetto. La serie perlomeno si sviluppa. Come fosse Guerra e Pace. Se riesce a catturare l’attenzione dei giovani da questo continuo scrollare, ben venga. Educa i ragazzi a mantenere l’attenzione.
Poco importa che sia piccolo o grande schermo.
Non capisco il feticismo per il grande schermo. Anche io sono cresciuta con il cinema, ma già ai miei tempi i ragazzini erano tutti davanti alla televisione. Il bombardamento della tv berlusconiana al pomeriggio, che teneva tutti incollati. È l’evoluzione: non è meglio o peggio. Chi siamo noi per dire cosa è meglio? Noi siamo cresciuti in un modo che non fa per loro.
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