Essere stato scelto di nuovo dall’Iran per rappresentare il suo paese agli Oscar con Il passato non preoccupa Asghar Farhadi: “Non ne sento lo stress, l’esperienza passata mi ha insegnato che devo continuare a fare il mio lavoro. Io propongo, ma non insisto”, dice il regista, a Roma per presentare il suo nuovo film, in uscita il 21 novembre in 80 copie distribuito dalla Bim. La pellicola ha debuttato a Cannes dove la protagonista Bérénice Bejo ha vinto il premio come miglior attrice. Mentre, a proposito della vittoria dell’Oscar con Una separazione – il primo Oscar mai andato all’Iran – Farhadi aggiunge: “E’ stata una bellissima sensazione vincere a Hollywood, con un film girato con un capitale molto limitato, in due camere e cucina, molto lontano dai loro standard. E’ un po’ quello che è successo con il cinema italiano che si è affermato con film molto diversi da quella logica”. La vittoria della statuetta, “ha reso strafelice il mio popolo anche se alla tv di Stato non ne hanno neanche parlato”.
Il successo mondiale di Una separazione, che era iniziato a Berlino con l’Orso d’oro e gli argenti agli attori, ha agevolato la produzione del film successivo, sua prima opera internazionale, prodotta da Alexandre Mallet-Guy di Memento Film. I due si sono incontrati proprio alla Berlinale ai tempi del precedente About Elly, che vinse l’Orso d’argento per la regia e incassò benissimo in Francia. E quando Farhadi, nel 2011, parlò a Mallet-Guy di un progetto che voleva ambientare in Germania, fu immediata la proposta di spostare la vicenda a Parigi. Ed è proprio nella banlieue parigina, triste e anonima, che si svolge l’azione. Marie (Bérénice Bejo) va a prendere Ahmad (Ali Mosaffa) all’aeroporto. L’uomo arriva da Teheran. L’ha chiamato lei che intende divorziare dopo quattro anni di separazione. Ma invece di prenotargli un albergo, lo porta in quella che fu la loro casa, dove ora abita con il piccolo Fouad e con suo padre Samir (Tahar Rahim), suo nuovo compagno, oltre che con le due figlie di una precedente unione, molto affezionate a Ahmad che considerano come un padre: soprattutto la maggiore Lucie, ormai adolescente (Pauline Burlet) e molto ostile al nuovo rapporto della madre. Una situazione quantomai ambigua, benché all’ordine del giorno nelle famiglie allargate, dove ogni personaggio cela risentimenti, colpe di cui chiedere perdono, verità che non si sa se sia meglio rivelare o tenere per sé. E che diventa drammatica quando si scopre che la moglie di Samir è in coma. I sentimenti, tanto complessi da non essere districabili, deflagreranno nel corso della narrazione condotta con la consueta maestria e finezza psicologica dal 41enne regista iraniano. E con non pochi colpi di scena.
Anche qui c’è una separazione, come nel suo film più celebre. Ma questa storia non avrebbe potuto svolgersi in Iran?
No, l’ho pensata fin da principio in un paese straniero, perché è anche la storia di un iraniano che lascia la sua patria. Certo poteva esserci Roma al posto di Parigi, ma molti motivi mi hanno spinto ad ambientarla in Francia. Comunque lavorare in Iran o in Francia non fa molta differenza per me, anche se qui ci sono più mezzi e soldi a disposizione, ma il mio modo di fare è lo stesso.
La casa di Marie, una vecchia casa piena di disordine, di lavori da fare, di cose da aggiustare, è fondamentale nello svolgersi della vicenda di cui è il principale teatro.
E’ vero, ho cercato a lungo la casa giusta. Doveva essere vecchia, vicina alla stazione dei treni e ai binari, che sono una metafora del passato. Non volevo una casa del centro di Parigi e una città da cartolina. Quando un regista lavora all’estero, la tendenza a dare una visione turistica dei luoghi è sempre molto forte. Ma io l’ho evitata.
“Il passato” è un film iraniano o un film francese?
Sono iraniano, anche se lavoro fuori dal mio paese, resto iraniano, la mia formazione è avvenuta lì. Se Garcia Marquez scrive un romanzo all’estero, la storia che racconta non è più colombiana? Trovo questa domanda poco interessante, ciò che conta è il rapporto di ogni singolo spettatore con il film.
Lavorare fuori vuol dire acquistare una libertà diversa?
C’è una censura esterna, imposta dalle leggi, e una censura interiore, che ti porti sempre dentro, ovunque tu vada. Questa autocensura è anche più pericolosa. La censura può venire dalla situazione sociale ma anche da quella economica. Lavorando all’estero le restrizioni imposte al cinema iraniano non pesano più, ma ci sono altri limiti che ho interiorizzato, la mia personalità è già formata. Ho trascorso due anni fuori per fare questo film, ma non mi sono liberato dei miei limiti interni. Però cerco di vederli non come ostacolo, ma come risorsa.
Il suo modo di lavorare sui caratteri è molto teatrale, con le psicologie che sono disegnate da ciò che i personaggi dicono o non dicono.
Ho trascorso gran parte della mia carriera a teatro. Ibsen è uno dei miei autori preferiti.
Da lì viene anche il suo interesse per i legami familiari?
Parlare della famiglia mi permette di essere molto vicino ai miei spettatori. Chiunque ha un’esperienza diretta o indiretta della famiglia. Inoltre il rapporto di coppia è tra le relazioni più ancestrali e mostra sempre aspetti nuovi e inediti.
Ogni personaggio è portatore di una verità, di un punto di vista.
La verità non è qualcosa che si possa fissare nel tempo e nello spazio, è fluttuante e dipende dall’angolo visuale. Nella relazione di coppia questo è quantomai evidente, perché è la relazione più complessa che esista: dove amore, odio, quotidianità si mescolano. E’ questo che la rende così interessante.
L’amico di Ahmad, interpretato da Babak Karimi, ci fa pensare ai molti iraniani che vivono all’estero.
Ne ho incontrati tanti, vivono all’estero non per loro volontà. Dall’Iran c’è un’enorme migrazione che somiglia a una diaspora.
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