“Chiaramente da quando sono atterrato ieri non sento parlare che di politica – dice il regista Ari Folman che presenta a Roma il suo Anna Frank e il Diario Segreto, in uscita il 29 settembre con Lucky Red in 200 copie – ma anche nel mio paese vige l’estrema destra e nessuno si preoccupa più di costituire lo stato palestinese. Mi sembra che ci sia un’ondata che durerà finché non si infrange contro le rocce. Credo che siamo a metà strada in questa escalation in termini di diritti umani, mi piacerebbe essere ottimista, ma temo che il peggio debba ancora venire”.
Dopo Valzer con Bashir, acclamato a livello internazionale, il regista, vincitore del Golden Globe e candidato all’Oscar®, ritorna con una fiaba moderna che non si limita ad essere un adattamento del celebre Diario.
Presentato fuori concorso e accolto con 10 minuti di ovazione al Festival di Cannes, applaudito dai ragazzi di Alice nella Città, Anna Frank e il Diario Segreto è frutto di otto anni di lavoro.
Affiancato dalla disegnatrice Lena Guberman, Folman dà vita a Kitty, l’amica immaginaria a cui si rivolge Anna nel suo Diario, decisa a ritrovare l’amica tanto amata in una febbrile ricerca attraverso l’Europa di oggi. Armata del prezioso Diario e aiutata dal suo amico Peter, che gestisce un centro di accoglienza segreto per rifugiati clandestini, Kitty segue le tracce di Anna.
Kitty si risveglia magicamente nella casa di Amsterdam in cui ha vissuto la sua amica.
Sono gli anni 2000 e la casa nascondiglio è stata adibita a museo, attirando visitatori da tutto il mondo. Convinta che Anna sia ancora viva Kitty si mette sulle sue tracce. Affronterà un viaggio avventuroso alla scoperta del mondo di oggi.
Sconcertata da un mondo lacerato e dalle ingiustizie sopportate dai bambini rifugiati, Kitty decide di realizzare l’intento di Anna e, grazie alla sua onestà e al suo senso morale, lancia un messaggio di speranza e di generosità indirizzato alle generazioni future.
“Anna non ha scritto il Diario per essere venerata. La cosa importante è che facciate tutto il possibile per proteggere anche una sola anima dal male”, è una delle frasi chiave del film.
“Facendo ricerche per il film – dice Folman – ho scoperto che la famiglia di Anna Frank è arrivata ad Auschwitz insieme ai miei genitori. Non lo sapevo. Anna è stata messa sull’ultimo treno che dall’Olanda andava ad Auschwitz esattamente negli stessi giorni. Il film mi è stato offerto dalla Fondazione Anna Frank di Basilea, non sono stato io a decidere di farlo, ma questo elemento mi ha accompagnato per i lunghi otto anni che sono serviti per la realizzazione. Inizialmente avevo rifiutato, pensavo che non ci fosse altro da dire su Anna Frank ma mi è stato dato del tempo. Ho riletto il diario e ho capito quanto lei potesse comunicare ai ragazzi, aveva una grande capacità di scrittura. Quando mia madre, ebrea polacca, ha saputo che avevo rifiutato mi ha detto: ‘Va bene, però morirò nel weekend!’. Altrimenti, mi ha promesso che sarebbe venuta all’anteprima, oggi ha 100 anni e in effetti il film lo ha visto. E lì per lì avevo para di mostrarglielo, perché temevo che a quel punto, dopo averlo visto, sarebbe morta. Invece lo ha visto e mi ha detto subito: ‘Sì, ma ci hai messo il doppio del tempo che ci ha messo l’Olocausto a fare quello che ha fatto’”.
“Il film segue l’eredità di Otto Frank, il padre di Anna, che tornato dal campo non sapeva né che la figlia fosse morta a Bergen Belsen, né che avesse scritto un diario – dice ancora il regista – e quando lo ha scoperto ha realizzato il sogno di sua figlia di diventare la scrittrice più giovane della storia. Ma soprattutto ha fatto sì che il Diario potesse diventare uno strumento per i bambini afflitti dalla guerra in tutto il mondo. Investì tutti i ricavi della vendita del Diario, vivendo modestamente, per finanziare le associazioni che si occupano dei bambini in zone di guerra. Si tratta di un modo di cercare di sviluppare pietà e compassione nei confronti di queste situazioni”.
Per il film, dichiara ancora Folman “ho ricevuto carta bianca. Ho posto alcune condizioni: doveva essere indirizzato ai giovani, quindi non limitarsi alle parti oscure, dovevamo attirare l’attenzione dei ragazzi, con delle caratteristiche di colore, sotto forma di favola. Per questo abbiamo dato voce a Kitty, un personaggio immaginario, che gli altri non possono vedere, è fatto di inchiostro e parole. Doveva essere un film accessibile dove ci fosse colore e bellezza. E poi volevo assolutamente parlare degli ultimi 7 mesi di vita di Anna Frank, che è sempre raccontata come un’icona, ci si ferma sempre a quando smette di scrivere. Ma non si parla mai della deportazione e dei terribili 7 mesi passati nel campo. Questo non è mai raccontato perché il padre di Otto Frank chiese di tagliare quella parte dal primo film su Anna mai diffuso, perché temeva che non avrebbero consentito di vendere il Diario. E infine, il collegamento tra passato e presente, seppur senza voler paragonare il genocidio dell’Olocausto alla condizione dei rifugiati ai giorni nostri. I bambini dell’Olocausto non hanno avuto la possibilità di essere rifugiati o sostenere sostegno e supporto da parte di Amnesty International. Non è corretto fare paragoni tra un genocidio e l’altro, inoltre: per gli ebrei l’Olocausto è terribile, ma anche l’orrore del genocidio in Congo realizzato da Leopoldo II lo è”.
Interviene Riccardo Noury, portavoce di Amnesty International: “Le vittime dei genocidi non vorrebbero mai essere paragonate, è corretto. Noi vogliamo che questo film importante sia diffuso nelle scuole e se Lucky Red è d’accordo vorremmo fosse il film della Giornata della Memoria”.
Dal film è tratto un graphic novel edito da Einaudi.
“Per la precisione ci sono due graphic novel – spiega il regista – la prima è il Diario originale, trasposto in chiave fumettistica. E’ uscito nel 2017 in 26 paesi, con grande successo. Sono stato molto fedele all’originale, anche in termini di foliazione, per invogliare il lettore del fumetto ad andare a leggere il testo originale. Il secondo è invece la trasposizione della sceneggiatura del film, e abbiamo deciso di farlo perché ritenevamo che ci potesse aiutare a convincere i distributori che potesse essere un argomento di successo commerciale, e ci siamo riusciti”.
Tornando sulla politica, commenta Folman:
“In Israele i cineasti sono quelli che combattono di più per la libertà, lo stesso non avviene per il mondo della musica, ad esempio. I cineasti invece si fanno sentire. Un mese fa c’è stata una grande petizione fissata da 130 registi per opporsi alle sovvenzioni stanziate in Cisgiordania a cui hanno accesso solo gli israeliani e non gli arabi. Noi abbiamo protestato e deciso che non presenteremo domanda. Proprio con il graphic novel siamo andati nella casa del presidente israeliano che lo usava come regalo per le personalità straniere che andavano a visitarlo. Mi ricordo che la moglie del nostro presidente in via informale mi ha detto ‘la libertà nelle arti non è una cosa che si chiede, ma qualcosa che ci si prende’, e ho deciso di citare questa frase anche al festival di Gerusalemme, la trovo fondamentale. La libertà non si deve esigere o richiedere ma si deve percepire, sentire e prendere. Questo ci consente la fiducia in noi stessi, altrimenti la censura diventa autocensura inconsapevole. Il cinema forse non cambia il mondo come un trattato di politica, ma può spingere le persone a fare piccole cose che poi portano a grandi risultati. Se un adolescente di Rimini pensa che fare l’attivista sia fico grazie al mio film, ho fatto il mio lavoro e ne sono soddisfatto. Nessuno in Israele ti dice esattamente cosa devi o non devi fare, tutto tecnicamente può essere fatto, ma l’atmosfera è tesa e quindi scatta l’autocensura. E allora si comincia a pensare: ‘che film posso fare? Dove posso muovermi senza avere problemi? Faccio un film sui territori occupati, o è meglio che faccio una commedia? Dove posso avere migliori chance di essere finanziato?’ Questo vale soprattutto per i giovani, appena laureati alla scuola di cinema, che hanno bisogno di sovvenzioni statali, che ovviamente sono limitate”.
Il film è stato impegnativo anche dal punto di vista tecnico: “avevamo animatori ovunque, da Bergamo a Toronto, in Australia, in Nuova Zelanda, nelle Filippine, altri erano bloccati in Martinica e non potevano tornare in Francia e per creare le reference abbiamo scolpito tutti i personaggi e li abbiamo fotografati da più angolazioni, per 160mila disegni diversi, questo era necessario per il coordinamento. I set erano ricostruiti in miniatura, lavorati in stop motion dal team di Wes Anderson che ha lavorato a Mister Fox e a L’Isola dei cani. Forse è la prima volta che dei personaggi in 2D si muovono su set realizzati in 3D. Doveva essere una coproduzione tra cinque paesi ma per via della pandemia molti studios hanno chiuso, quindi cercavamo animatori dovunque li trovassimo, alla fine ci sono 14 paesi coinvolti in produzione. La pandemia ha paradossalmente potenziato il lavoro, perché non potendo uscire di casa, tutti erano molto impegnati”.
Per il futuro, Folman ha in cantiere l’adattamento di un romanzo ucraino, ‘La morte e il pinguino’, “di cui mi sono innamorato dieci anni fa, ma i cui diritti appartenevano a un collega. E’ una storia triste, con elementi dark ma anche divertente e buffa. Parla del crollo del comunismo, avevo comprato i diritti già prima dell’invasione dell’Ucraina, ma chiaramente ci sarà una parentesi moderna, con un flashback. Sarà un film contemporaneo e live-action, quindi stavolta non ci metterò otto anni”.
Folman chiude comunque con un messaggio di speranza: “prima che l’arte venga toccata, ce ne vorrà. Le persone che fanno arte restano libere. Possiamo essere abbastanza ottimisti e rilassati da questo punto di vista”.
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