Antonio Rezza e ‘Il Cristo in gola’: “Volevo misurarmi con un collega”

Con la consueta, provocatoria, genialità, il Leone d'Oro alla carriera per il Teatro Antonio Rezza presenta a Torino il suo nuovo film, Il Cristo in gola, in cui interpreta un Gesù incapace di parlare


Un film orgogliosamente indipendente e provocatorio, proprio come il suo autore e interprete: Antonio Rezza. In selezione ufficiale fuori concorso al 40mo Torino Film Festival, Il Cristo in gola è il nuovo film dello straordinario performer vincitore insieme a Flavia Mastrella nel 2019 del Leone d’Oro alla carriera per il Teatro. Dopo lo spietato killer di Samp, presentato come Evento Speciale alle Giornate degli Autori di Venezia nel 2020, Rezza dirige e interpreta una figura molto più conosciuta e delicata: quella del Cristo.

In un bianco e nero minimale, sullo sfondo dell’eterna Matera, il suo è un Gesù incapace di proferire parola. Una sorta di rockstar, un artista che compie i suoi miracoli solo grazie a urla strazianti e disperate che infrangono ogni tipo di naturalismo. Antonio Rezza, da teatrante puro, offre al medium cinematografico una visione artistica unica, in cui gli unici limiti sono la sua geniale creatività e la sua prorompente presenza scenica.

Le prime riprese di questo film sono datate 2004, come mai lo sviluppo produttivo è stato così lungo?

Se uno non segue un piano produttivo imposto da altre persone, i film si fanno da soli. È la vita che lo ha fatto e a me piace che l’opera sfugga dalle mani di chi la fa perché ne guadagna quello che fai. Nel 2008 presentai il progetto, solo che Flavia Mastrella non volle partecipare perché non voleva esaminare la figura di Cristo. Le sembrava di fare pubblicità occulta alla religione. Con una motivazione così ineccepibile io non ho insistito. Però io volevo misurarmi con un collega e quindi ho iniziato a girarlo. Uscirono talmente tante recensioni nazionali a pagina intera che rimasi inibito dalla potenza. Quindi sospesi il progetto perché dissi: può essere mai che un Cristo fatto da me, che non potrà mai essere un Cristo filologico desti tanto interesse? Mi sembrava quasi un affronto a tutte le cose che facevamo noi e altri artisti. Poi dopo che Samp è stato selezionato a Venezia, ho deciso di finirlo. Flavia ha fatto il suo film La legge: la costituzione recitata dagli animali e io ho fatto Il Cristo in gola.

Mi piace la definizione di “collega”. Intende dire che Cristo è un artista o che lei è un profeta?

Cristo è un collega perché anche noi predichiamo, in qualche modo. Solo che noi predichiamo in mezzo al deserto, lui no. Siamo stati più sfortunati noi. Collega per caratteristiche fisiche, perché il suo corpo iconografico assomiglia al mio. Io non so davvero come pensasse Cristo, non so se fosse una persona corretta o no, non lo posso sapere, aldilà di tutto quello che ha tramandato. Però so quello che sono io e quindi, arbitrariamente e performativamente, ho voluto confrontarmi con questo personaggio che sicuramente ha lasciato un segno. Non so se io durerò quanto lui, dipende da quello che faranno gli eredi. Io sono ateo in modo razionale. Non credo che ci sia nessuna forma che tutela l’essere umano, perché è un essere talmente imperfetto che non merita una seconda opportunità.

Da dove viene la scelta di togliere la parola al Cristo e lasciargli solo le urla?

La situazione è sfuggita al mio controllo, perché inizialmente Cristo doveva recitare. Avevo selezionato gli aforismi di Stanislaw Lec, che dovevano essere il testo nella sua bocca. Ora, io non sono un attore: la sorte non è stata così ingrata con me. Quando recitavo questi aforismi io mi sentivo finto, come ogni attore dovrebbe sentirsi, ma, non essendo pagato da nessuno, io mi ribello a me stesso. L’attore che spesso si sente finto, non si ribella perché è pagato da altri. Il mio è un processo morale all’attore. Fin quando io dirigo soltanto, il film è filologico, specularmente a quello di Pasolini, di cui voleva essere un omaggio. Da quando io interpreto il film, dopo un quarto d’ora dall’inizio, il film mi sfugge dalle mani perché io mi ribello. Ho iniziato a urlare per la disperazione, perché non sapevo cosa fare. Non riuscivo a recitare quello che mi ero scritto. La ribellione all’autore è qualcosa che ogni attore dovrebbe infliggersi, purtroppo questo avviene quando uno non è retribuito. È veramente triste. Ho il massimo distacco dalla figura dell’attore prezzolato che si cala in stati d’animo che non sono i suoi, che interpreta quello che non è lui. La mia è una finzione massima, ma è molto più vero di un attore che si cala in un personaggio.

Quando è arrivata l’idea di Matera?

Subito, subito. Per lo sputtanamento che sta subendo come ogni città turistica che diventa vittima di chi la brutalizza con la sua presenza. Sono forse le ultime immagini di una Matera non in balia dei corrimani imposti da Gibson, di quello che è successo con il film di 007. Adesso girare a Matera è difficilissimo, non riesci a non prendere gruppi di turisti orientali amplificati che sporcano anche il silenzio, oppure cartelli di bar o ristoranti. Purtroppo Matera rischia di fare la fine di città che diventano cartoline, che ne so, come Firenze…

O Venezia?

Venezia conserva ancora qualcosa, ma solo perché sono molto scorbutici gli abitanti. Gli danno fastidio i turisti, è un’intransigenza che la rende ancora decadente e genuina.

Nel film ci sono molti personaggi secondari davvero caratteristici, come l’Arcangelo Gabriele in abiti militari e un diavolo nelle sembianze di una nonnina.

Il ragazzo che interpretava faceva il militare: è tutto casuale. È lo stemma delle comunicazioni e lui, in fondo, porta comunicazioni. La nonna diavolo la trovammo a Matera, abitava nel cortile del BeB dove dormivamo e quando l’ho sentita parlare ho pensato che il diavolo iconografico che volevo utilizzare era superato dalla sua saggezza, che è imperfetta come ogni saggezza popolare. Gli anziani sembrano saggi solo perché hanno più anni di noi e io non vedo l’ora di diventare anziano per dimostrare la mia immaturità.

E la Madonna?

La Madonna è il personaggio più cattivo del film, più ambiguo, è una sfinge che ride solo quando il Cristo lavora, quando si costruisce la croce. Il suo è un omicidio premeditato come ogni madre sa fare.

Ci sono altri due Rezza nel film, uno è suo padre, l’altro è suo figlio.

La parte con mio figlio non l’avevo prevista, perché non avevo previsto di diventare padre. Poi con Stefania Saltarelli, che interpreta la Madonna, abbiamo fatto Giordano… però non vorrei aggiungere altro, per non togliere la sorpresa del finale.

Si aspetta di vincere riconoscimenti in ambito cinematografico, oltre che quelli per il teatro?

È chiaro, è evidente che questo film dovrebbe vincere ogni tipo di premio per come è stato concepito. Come lezione all’attore. Anche non volendo premiare un film così audace (ride ndr.), anche a livello di interpretazione credo di essere superiore a qualsiasi attore sulla piazza, no?

Certo, credo sia oggettivo.

Sì, questo è oggettivo. Mica lo dico perché l’ho interpretato io. Non vedo perché un film indipendente non possa vincere i vari David di Donatello e queste stronzate qui. Io riceverei volentieri questi premi, non per civetteria, ma soltanto per dimostrare che l’indipendenza deve essere riconosciuta dall’istituzione.

Però prima mi dice di non essere un attore e ora che vorrebbe un premio come attore: come funziona?

Voglio un premio come attore involontario. Anzi voglio un premio al film. Deve esser premiato. È come il Leone d’Oro dato a me a Flavia. Noi non abbiamo mai riconosciuto la presenza delle istituzioni, io non credo nella presenza dello Stato e non lo riconosco. L’unico potere che riconosco è quello di poter fare le cose. Quando ci hanno dato il Leone d’Oro è stato un segno importante. L’indipendenza deve essere riconosciuta dall’istituzione. Io non riconosco l’istituzione, ma l’istituzione deve riconoscere me: è un dovere morale. Io non riconosco l’istituzione perché non ha talento, altrimenti non vivremmo in un mondo così, ma l’arte ha talento, e deve essere riconosciuto. Non è una rivendicazione personale, ma un modo per rivendicare chi attraverso l’arte non vende se stesso.

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