Femmine crudeli e diaboliche. Carnefici fredde e spietate. Mostruose figure femminili popolano il nostro immaginario, lo attraversano dalla mitologia antica fino ai nostri giorni. Tra loro troviamo Clitennestra, che in Orestea, la tragedia di Eschilo, uccide il suo sposo Agamennone e muore per mano di suo figlio Oreste.
Ed è proprio Clitennestra che il regista Antonio Capuano ha voluto far rivivere in Luna Rossa, il suo film, in concorso a Venezia 58, in cui offre una riscrittura in chiave moderna della tragedia greca. L’ambientazione è la Napoli del presente in cui si consuma la disgregazione di una famiglia camorrista, rivisitata attraverso un flashback originato dal racconto di un pentito al giudice.
Antonio Capuano ha 61 anni, da dieci lavora nel cinema, e da allora ha diretto film come Vito e gli altri (1991), con cui ha vinto il Premio della Settimana della Critica a Venezia, e Pianese Nunzio, 14 anni a maggio (1996), la discussa pellicola che racconta la storia d’amore tra un prete e un ragazzino. Il volto della sua Clitennestra in Luna Rossa è quello di Licia Maglietta che è affiancata da attori come Carlo Cecchi e Tony Servillo.
Come è nata l’idea di realizzare “Luna Rossa”?
Nasce diversi anni fa, già prima della realizzazione di Pianese Nunzio, 14 anni a maggio. Allora incontrai Abel Ferrara al Festival di Venezia, avevo visto il suo film Fratelli e pensai che lì la componente della tragedia fosse molto forte. Un giorno ci siamo ritrovati a chiaccherare e gli dissi che avrei rifatto il suo film da una prospettiva più vicina alla Grecia. Gli dissi che lui non aveva trovato il sangue, l’elemento che ho invece ricercato nel mio film. Così ho messo in scena dei personaggi che vivono nel cono d’ombra della criminalità. In un nido di sangue appunto. Formano una famiglia criminale, spietata e fredda. Respirano una cultura mafiosa, impenetrabile e coesa. L’equilibrio del clan comincia a vacillare, perché le ultime generazioni sentono il ricatto di una vita che non appartiene loro. In particolare Oreste sente tutto il peso dello stile mortuario in cui vive. Per questo lo fa implodere e distrugge la famiglia. È un film in cui emergono passioni primordiali e archetipiche.
Irene, la protagonista del tuo film è una moderna Clitennestra, è una figura inquietante. A quali personaggi femminili ti sei ispirato? Forse alle dark lady dei noir anni Quaranta?
Non avevo riferimenti cinematografici precisi mentre scrivevo la sceneggiatura. Ho solo pensato a creare una figura di donna che vive in un clima culturale molto duro e difficile. Lei è una maledetta intrigante. Una contrabbandiera di falsi vestiti firmati. Ma si comporta un po’ come una fotomodella, una femmina che vuole essere bella. Il suo retroterra sottoproletario le fa accumulare cattivo gusto.
Oreste è il figlio di Irene. Che rapporto c’è tra loro?
Tutte le relazioni tra madre e figlio sono sottilmente edipiche. Questa è una componente che ci sarà sempre, almeno fino a quando l’essere umano non sarà clonato. Allora, quando i figli non nasceranno più dal corpo di una donna, forse il rapporto edipico non esisterà più. In Oreste vive un Edipo esasperato. Lui è chiuso, distruttivo, autolesionista. È votato alla sofferenza e si infligge dolore. Del resto, lo fanno anche molti giovani che alterano i loro corpi con i piercing. Irene capisce i sentimenti del figlio e il rapporto fra loro è molto teso e intenso.
Sei arrivato al cinema molto tardi. Perché?
Non c’è un motivo preciso. Ogni autore trova un momento particolare per cominciare. Può essere anche un’occasione fortuita. Gli autori fanno film in cui raccontano se stessi, in cui mettono anni della propria vita. Ogni pellicola è come un buco della serratura sul mondo. La differenza con i registi che lavorano su commissione sta qui. Ho iniziato quasi per caso a scrivere la sceneggiatura di Vito e gli altri. In quel momento non c’erano molti film che mi piacevano, così invece di continuare a fare critiche sterili mi sono buttato nell’impresa. Ho scoperto che il cinema è la mia dimensione espressiva. Ora girare mi viene naturale. Soffro per le attese, quando devo aspettare che tutto sia pronto per il ciak.
Sei anche un pittore. Che rapporto c’è tra i tuoi dipinti e il tuo cinema?
Dico sempre che faccio una pittura cinematografica e un cinema pittorico. È una boutade efficace: il cinema e la pittura sono due linguaggi con cui raccontarsi. Fanno parte entrambi della mia esperienza visiva che è iniziata col fumetto, cioè una narrazione per immagini.
Parliamo di Pasolini. Il suo trattamento della tragedia greca in Medea ti ha influenzato in qualche modo nella realizzazione di “Luna Rossa”?
Non parlerei di una semplice influenza. Pasolini è talmente dentro di me che non saprei dire dove finisce lui e dove inizio io. L’ho amato molto e continuo ad amarlo. Come tutti i rapporti intensi mi ha modificato. C’è stata quel tipo di trasformazione che si crea quando la cultura permea l’identità.
“Luna Rossa” è ambientato a Napoli. Eppure è una città molto lontana dallo stereotipo sole-pizza-mandolino.
In realtà Napoli compare solo in poche scene esterne, in cui si vede il lato più periferico e frugale della città. Si capisce che lo scenario è quello dalle inflessioni della lingua, dagli accenti dialettali, dalla fenomenologia criminale che è al centro del film.
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