Unico film di animazione in Concorso a Venezia 72, Anomalisa di Charlie Kaufman è un esperimento innovativo e interessante, raro caso di cartoon (realizzato con dei pupazzi in stop-motion) che non si concentra su una storia per famiglie ma affronta invece un dramma introspettivo e intimista, con echi da Lost in Translation e naturalmente dai precedenti film scritti da Kaufman, qui co-regista insieme a Duke Johnson e sceneggiatore per pellicole di culto come Essere John Malkovich e Se mi lasci ti cancello. Nel 2012 è stato il progetto cinematografico più finanziato su Kickstarter, uno dei primi e dei più clamorosi. La storia era stata già utilizzata per un radiodramma, e si arricchisce ora di dettagli appositamente per il film. Il protagonista Michael è uno scrittore, che ha pubblicato un besteller su come ottimizzare il costumer care delle aziende. Ciononostante è in crisi con sé stesso, con la sua famiglia e con il mondo che lo circonda. Per lui tutte le persone che incontra hanno la stessa voce (quella dell’attore britannico Tom Noonan). Che siano uomini o donne non conta. Sua moglie, la sua Ex, il tassista che lo accompagna in hotel. Nessuno riesce a dargli il contatto di cui ha bisogno. Solo una lo colpisce. E’ Lisa, una ragazza incontrata in albergo, che gli appare diversa. Ha una voce propria, un volto proprio, caratterizzato da una cicatrice. Non è niente di speciale, Lisa, eppure per Michael è un’ancora verso la salvezza. Basterà una notte d’amore – esplicita la scena di sesso, tra le prime realizzate in animazione stop-motion – a salvare Michael dal baratro depressivo dove sembra essere precipitato?
“Era un’idea che probabilmente non avrebbe reso bene utilizzando attori reali – dice il regista – non sarebbe stato facile replicare il volto di Tom così tante volte. Abbiamo usato uno stile a metà tra il realismo e una visione della realtà estremizzata. Volevamo che la parte costruttiva dei pupazzi si vedesse, i personaggi dovevano risultare artificiali, per questo abbiamo lasciato che si scorgessero chiare le linee di attaccatura dei volti. Abbiamo curato la colonna sonora facendo sì che i musicisti potessero ascoltare direttamente delle letture fatte sulla sceneggiatura dagli attori”. “Come era spezzettata la sceneggiatura – dice Tom Noonan – abbiamo anche dovuto spezzettare la voce”. L’hotel dove alloggia il protagonista si chiama Fregoli, in riferimento alla sindrome che prende il nome dall’attore Luciano Fregoli, che era lui stesso un trasformista: “Doveva chiamarsi Millennium – dice ancora Kaufman – ma il nome era sotto diritti, così abbiamo pensato di omaggiarlo”. “Uno dei proprietari dello studio dove lavoravo – dice il co-regista Johnson – mi ha fatto vedere la sceneggiatura e ho subito capito che si adattava a un lavoro in stop-motion. Ci sono anche degli sfondi dipinti, il nostro scopo era di dare un aspetto reale al tutto, perché in fondo si tratta di emozioni. Per quanto la computer graphic possa dare risultati soddisfacenti, l’occhio umano si accorge di cosa è finto, anche se tecnicamente non sappiamo darne il motivo. Volevamo che si vedesse la materia e che non risultasse tutto troppo patinato”.
Si tratta forse del film più diretto di Kaufman: “non saprei dirlo – dice ancora – credo che sia semplicemente una storia più semplice perché è più piccolo l’ambiente in cui si svolge. Si tratta di un week-end in un hotel. L’ho scritto come fosse un’opera teatrale, quindi rispettando le unità di tempo e spazio”. Jennifer Jason Leigh è l’unica voce femminile del lotto, naturalmente quella di Lisa: “L’ambiente era molto raccolto – spiega – e sei limitato nei movimenti perché in registrazione si sente tutto. La tensione, una pagina che si gira, lo stomaco che borbotta. E’ stato un momento intimo, anche imbarazzante se vogliamo”. Immancabile la domanda sul ‘customer service’: “Ne ho fatto molto – spiega il regista – e lo utilizzo tantissimo. Recentemente mi è capitata una cosa strana. Ho chiamato il mio gestore per un problema che avevo al cellulare. Il tipo dall’altra parte del telefono mi dice: “Ciao io sono Jim. Come stai?”. Ho risposto “Io bene, e tu?”. Non lo faccio quasi mai, ma mi è venuta voglia di parlargli. Quello a sentire che qualcuno gli rispondeva in maniera gentile si è entusiasmato, abbiamo fatto amicizia. Gli ho raccontato che stavo venendo in Italia e lui mi ha detto ‘che bello, mi piacerebbe venirci. Io invece guardo il calcio’, poi abbiamo parlato del tempo, di Minneapolis, a un certo punto gli ho detto ‘Ehi, speriamo che non ti licenzino, per questa telefonata così lunga’. Quando fai customer care sei portato a vedere il cliente quasi come un nemico, possono essere molto sgradevoli, ma in quel caso è stato piacevolissimo, quindi anche quello può essere un modo di comunicare”.
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