Angela Molina: “Quando Buñuel mi prese sotto la sua ala”

L'abbiamo appena vista nel ruolo di Suor Raffaella nel film di Liliana Cavani 'L’ordine del tempo', ma il primo incontro di Angela Molina con il cinema italiano risale al 1977


Di recente, gli spettatori italiani hanno potuto ammirare l’intensità di cui è capace nei panni di Suor Raffaella, la clarissa de L’ordine del tempo di Liliana Cavani. Ma il primo incontro di Angela Molina con il cinema italiano risale al 1977 con L’ingorgo di Luigi Comencini. Da allora l’attrice spagnola, protagonista della Transición spagnola ed emblema del cinema europeo, è tornata più volte nel nostro paese, facendosi sempre apprezzare per la raffinatezza e la versatilità delle sue interpretazioni. Dopo un David di Donatello e un Nastro d’Argento, Molina è tornata in questi a Roma per ricevere un nuovo premio, quello alla carriera assegnatole dal Medfilm Festival.

Un premio alla carriera è sempre anche l’occasione per un bilancio sul proprio lavoro.  

Nel 1991 ero in Svezia, con Marcello Mastroianni e Michel Piccoli. Ci trovavamo a bordo di una nave enorme, nei camerini, in attesa tra una scena e l’altra de Il ladro di ragazzi di Christian de Chalonge. Mastroianni e Piccoli, per scherzo, facevano a gara a chi avesse fatto più film: ‘Io ne ho fatti 200!’, diceva uno. ‘Io più di 200’, ribatteva l’altro. Io ridevo e, sbalordita, commentavo: ‘Ma sono proprio tanti…’. Ecco, oggi anche io posso dire di averne fatti più di 150.

Questo è il punto d’arrivo di una carriera straordinaria. Ma se andiamo al capo opposto, com’è nata in lei la passione per il cinema? Voleva fare l’attrice fin da piccola?

Credo di essere già nata attrice. Diciamo che non ho nemmeno avuto il tempo di pensarci. La mia è una famiglia molto grande – ho otto fratelli – e in casa c’era sempre una grande confusione. Allora mi chiudevo in camera mia a leggere i classici e abitare mondi diversi, che mi facevano conoscere e immaginare. Mi sembrava di volare a un metro da terra. A due passi da casa, a Madrid, c’era un cinema. Quando tornavo da scuola mi fermavo per vedere un film. Ne ho visti di Rossellini, Truffaut, Kurosawa, Bergman. Entravo così in un mondo che era il ‘mio’ mondo segreto. Sentivo la necessità di svilupparlo e conoscerlo sempre di più. Questa è stata la mia vita.

Tra tutti quelli, anche molto diversi tra loro, che ha interpretato, c’è qualche personaggio che le è rimasto più nel cuore, a cui si sente più legata?

Tutte le interpretazioni sono parte di me. Non sarei quella che sono senza ciascuno dei miei ruoli, anche quelli che mi hanno creato dei problemi. Preferisco non far nomi ma mi è capitato di trovarmi in situazioni in cui ho pensato “Ma come si permette, questo?” Eppure, tutte le parti che ho interpretato hanno contribuito a formare la mia vita. Mi sento particolarmente legata a Las cosas del querer, un film spagnolo del 1989. Mi ha fatto rivivere la Spagna divertente e crudele – per la fame – della mia infanzia.

Il suo rapporto con il cinema italiano è stato sempre intenso. La lista dei registi con cui ha lavorato è lunga: Comencini, Pontecorvo, Petri, Tornatore, i Taviani, Archibugi, Bellocchio. Al Medfilm Festival, di Bellocchio, gli spettatori hanno potuto rivedere “Gli occhi, la bocca”. Com’è nata quella collaborazione?

Quando, nel 1982, Bellocchio mi propose di lavorare per la prima volta con lui, ero incinta. Per cui gli risposi: ‘Mi manca solo un mese. Mi puoi aspettare?’. ‘Certo!’, fu la risposta. Due settimane dopo la nascita di mio figlio Matteo sono partita per Bologna, dove iniziammo le riprese de Gli occhi, la bocca. La mattina congelavo il latte per il bambino e, anche grazie a mia madre, ho potuto portare a termine il film senza problemi.

Com’è stato lavorare con Marco Bellocchio?

E’ stato straordinario. Bellocchio è un regista profondo e molto raffinato, che ama indagare il carattere dei suoi personaggi. Ti fa arrivare al cuore, al mondo psichico e filosofico di ognuno di loro attraverso strade diverse da quelle degli altri registi. Ti ci porta con una leggerezza che elimina il peso del lavoro, con rispetto, lasciando all’attore la sua libertà. E’ in questo modo, che sul set riesce a creare il mistero della coesione.

E poter lavorare Liliana Cavani ne “L’ordine del tempo”?

Lo considero un privilegio. Liliana è la memoria dei cinema italiano, una memoria lucida, fresca. Conoscevo i suoi film, che mi hanno sempre colpito per la loro potente originalità, ma non ci avevo mai lavorato. Vederla sul set, ha suscitato in me grande ammirazione. Possiede una vitalità e una generosità incredibili, sembra avere vent’anni. Ha grande fiducia negli attori e questo rende il lavoro facile. Ma al tempo stesso è molto esigente, perché sa perfettamente quel che devono dare. Provo un grande amore per Liliana Cavani e averci lavorato mi fa sentire fortunata.

Sempre a proposito di grandi registi: che cosa ricorda di Luis Buñuel e della “seconda” Conchita interpretata in “Quell’oscuro oggetto del desiderio”?

Buñuel era un genio di una dolcezza indimenticabile. Il suo modo di lavorare era molto misterioso e insieme ludico. Sembrava divertirsi come un bambino. Per me è stato come un familiare. Quando lo conobbi avevo 22 anni e pochi giorni prima avevo perso mio nonno. Mi aveva dato appuntamento nella sua casa di Madrid. Lo trovai solo, che mi aspettava. Ci mettemmo a parlare, di tutto e di niente. Fuori pioveva. A un certo punto, mi venne da pensare a mio nonno e mi misi a piangere. Allora capì che si sarebbe dovuto prendere cura di una ‘bambina sofferente’. Da quel giorno mi prese sotto la sua ala. Quando mi incontrava in camerino mi diceva: ‘Molina, le voglio bene”. Sul set è riuscito a regalarmi una condizione di felicità totale.

Nella sua carriera ha avvicinato tutte le dimensioni del lavoro di attrice e tanti linguaggi: cinema, teatro, televisione. Qual è quella che sente più congeniale?

Il mestiere è lo stesso perché, alla fine, in destinatario è sempre il pubblico. Ma ci sono delle differenze. Nel teatro ti trovi davanti a delle persone in carne e ossa, e questo è meraviglioso. Il cinema, invece, ti permette di sognare. Nelle serie tv cambiano la velocità e lo stile. Bisogna sapersi adattare. Tuttavia, per me il cinema è una madre, è l’arte che mi ha formato.

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