TORINO – È’ tratto da un romanzo di Nick Hornby riambientato a Roma l’ultimo film di Andrea Molaioli, Slam- Tutto per una ragazza, presentato al TFF (Festa Mobile), una pellicola che affronta con ironia il tema della crescita e delle responsabilità. Il protagonista è Sam, sedicenne appassionato di skateboard che passa la vita con gli amici con cui condivide salti e cadute. Vorrebbe andare all’università, viaggiare e soprattutto non fare un figlio a sedici anni, com’è capitato a sua madre e a sua nonna. È però difficile sfuggire al singolare destino della sua famiglia quando incontra Alice, che sembra rappresentare tutto ciò che desidera, e si ritrova anche lui a dover affrontare una genitorialità precoce e non prevista. Nel cast oltre agli esordienti Ludovico Tersigni e Barbara Ramella, Luca Marinelli, nel ruolo del padre di Sam, e Jasmine Trinca, giovane madre molto vicina al mondo del figlio: “La minima differenza di età tra il mio personaggio e quello di Sam ha aiutato a togliere quella specie di distanza gerarchica, da un certo punto di vista legittima, spesso presente nei rapporti tra genitori e figli. Credo che i genitori non debbano essere mai giudicanti, semmai indicanti, e che debbano mostrare ai figli anche le proprie fragilità, per trasmetter loro un’idea di umanità e fallibilità”.
Prodotto da Indigo Film con Rai Cinema Slam- Tutto per una ragazza arriva in sala con la Universal dal 23 marzo.
Da cosa nasce l’idea di fare un film per molti versi così differente dai suoi lavori precedenti?
Era da un po’ di tempo che volevo raccontare il mondo dei ragazzi, però mi piaceva l’idea di raccontare adolescenze non alterare da questioni socio-ambientali forti e al tempo stesso volevo allontanarmi anche dallo stereotipo del ragazzo per forza apatico o, di contro, a tutti i costi rampante. Sentivo l’esigenza di pensare all’adolescenza in quanto tale, con tutto quello che significa in termini di entusiasmo e al tempo stesso di angoscia per il futuro. Una realtà che va avanti nonostante gli imprevisti e cerca di trovare una soluzione alle cose. La lettura del romanzo di Nick Hornby mi è sembrata un’ottima occasione, ne ho apprezzato soprattutto il tono: un racconto in cui temi anche importanti trovano una soluzione divertente e leggera, che non diventa, però, mai banale.
Come è stato il rapporto con Nick Hornby?
Lui è stato molto disponibile e ci ha lasciato la possibilità di lavorare in piena libertà rispetto alla sceneggiatura che abbiamo adattato alla differente geografia sociale. L’ambientazione è diversa, ma abbiamo cercato di rendere emotivamente l’umore del libro.
Protagonisti del film non sono solo i ragazzi ma anche il mondo degli adulti che si muove attorno a loro.
Al centro della storia ci sono, certo, i due ragazzi, ma non ci sono solo loro. C’è un confronto costante tra le due generazioni prese in esame rispetto al loro modo diverso di affrontare la vita. Ne emerge che spesso l’assunzione di responsabilità non va di pari passo con l’età anagrafica. Il mondo adulto viaggia parallelamente al mondo giovanile, non sta mai sopra, e gli eventi vengono affrontati con pari dignità da entrambe le generazioni.
Perché il racconto, inizialmente ambientato a Londra, è stato poi adattato al contesto romano?
Volevo un’ambientazione italiana, la scelta di Roma è stata più emotiva che necessaria. Da ex adolescente romano, e dunque per un fatto squisitamente emotivo, mi sembrava la scelta più naturale che mi offriva anche una certa comunanza di vedute che mi ha permesso di entrare di più nella dimensione dei giovani protagonisti.
La cultura degli skater è una aspetto fondamentale della narrazione originale, anche se non è ancora molto radicata in Italia e soprattutto a Roma.
È una filosofia forte, fare skate vuol dire cadere, farsi male, dover lavorare molto per raggiungere un obiettivo e non arrendersi quando non ci si riesce. Un concetto perfettamente in linea con la storia e a cui i personaggi, in modo consapevole o inconsapevole, si ispirano. Abbiamo cercato di coinvolgere il più possibile la scena romana, dove esiste in realtà un solo uno skate park pubblico, abbastanza periferico e abbandonato a se stesso, che è quello in cui abbiamo ambientato il film. Abbiamo cercato di riqualificarlo anche grazie all’intervento di sponsor, per fare in modo che alla fine del nostro passaggio rimanesse qualcosa anche a quei ragazzi.
Quanto è differente dall’originale il personaggio del padre, interpretato da Luca Marinelli?
Il personaggio esiste già nel romanzo, e anche lì ha un carattere dissacrante e reagisce molto di pancia. Noi gli abbiamo solo dato una caratterizzazione più locale, provando a restituire, anche attraverso l’inflessione romana, quel sarcasmo tutto nostrano che permette di dar voce a ciò che passa per la testa anche se non è mediato dal buon costume sociale.
Un altro film italiano recente, Piuma, ha affrontato il tema della genitorialità adolescente.
I due film hanno un’innegabile comunanza a livello di tematica ma sono estremamente distanti rispetto alle modalità di sviluppo della storia. Non so dire però se questo sia o meno un momento in cui gli adolescenti abbiano smania di fare figli. A me interessava la possibilità di vedere dei ragazzi che, a differenza del futuro nero che la mia generazione gli sta prospettando, cerchino di trovare una risposta non avvilita, che gli permetta di prendere in mano il loro presente e il futuro, al di là di quella prospettiva di apatia in cui noi spesso li releghiamo.
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