Andrea Di Stefano: “Non credo in Dio, credo in Marco Bellocchio!”

A Roma per presentare il suo secondo film da regista, The Informer, crime-thriller perfettamente confezionato, Di Stefano si sbottona sulla corsa all'Oscar di Bellocchio


Dopo il bell’esordio alla regia  Escobar: Il Paradiso perduto, con Benicio del Toro e Josh Hutcherson, l’attore e sceneggiatore Andrea Di Stefano torna dietro la macchia da presa con The Informer, nelle sale italiane dal 17 ottobre e in America dal prossimo gennaio. Un crime-thriller perfettamente confezionato, adrenalinico e ricco d’azione, ma anche con una forte base emotiva e un’autenticità fatta di cura meticolosa e realistica dei dettagli, a cui il cinema d’azione americano ci aveva disabituati. A dare volto ai protagonisti un cast stellare composto da Joel Kinnaman, Rosamund Pike, Common e Clive Owen che raccontano la storia di un ex soldato specializzato e veterano di guerra che, dopo essere stato in carcere per aver ucciso un uomo durante una rissa, lavora da infiltrato come informatore per l’FBI per smantellare il traffico di droga della mafia polacca a New York. Quando l’operazione dell’FBI si mette male, con la morte di un poliziotto del NYPD sotto copertura, Pete è obbligato a tornare a Bale Hill, la prigione in cui era stato detenuto in passato, per scardinare il cartello dall’interno.

Il film è tratto dal romanzo svedese di successo Tre Sekunder, firmato dal team di scrittori crime Roslund & Hellström, su cui Di Stefano ha innestato diversi cambiamenti in fase di sceneggiatura per meglio adattarlo al mondo della criminalità in America, realtà su cui ha fatto numerose e dettagliate ricerche. 

Rispetto, poi, alla corsa di Bellocchio verso l’Oscar, il regista, che aveva esordito da attore proprio ne Il principe di Homburg, ammette: “Io non credo in Dio, credo in Marco Bellocchio! Sono praticamente una sua groupie, e anche Il traditore mi è piaciuto moltissimo. Non so dire se verrà del tutto compreso in America, ma sicuramente possiede un’alta dose di autenticità che gli americani sanno  apprezzare”.

The Informer è tratto dal romanzo svedese Tre Sekunder, di cui era già disponibile una prima sceneggiatura quando le è stato presentato il progetto. Quanto è intervenuto per la stesura della versione finale della storia?
Ho riscritto completamente la prima sceneggiatura che mi è stata presentata. Ho fatto molte ricerche, parlato con varie persone, tra cui anche un agente dell’FBI che mi aveva aiutato già per Escobar. Ho incontrato un informatore ucraino, altri agenti, numerosi criminali: tutti mi hanno raccontato di come avvenivano realmente le cose fuori e dentro il carcere, scoprendo un mondo diverso da quello finora raccontato nella maggior parte dei film americani. Le scene del film vengono tutte dalla cronaca reale, dal realismo di piccoli dettagli pratici con cui ho stravolto la sceneggiatura iniziale.

Ad esempio?
La scena in cui lui spacca i piatti a casa per tornare in prigione mi è stata raccontata da un agente. Nella prima versione lui ritornava in prigione dopo una rissa molto più spettacolare ma irreale. Mi hanno, invece, detto che nella realtà basta che la moglie chiami la polizia mentre un detenuto è in regime di libertà vigilata e si sentano in sottofondo urla e minacce. Oggi c’è chi scrive copioni andando a vedere video su YouTube, ma bisognerebbe andare ad annusare le cose più da vicino per raccontarle correttamente.

Anche la descrizione della prigione, violenta e sconvolgente, racconta le carceri americane in modo inusuale.
La sceneggiatura aveva già una parte importante ambientata in prigione. Per capire come descriverla ho passato tre giorni in un carcere a nord di New York, dove ho scoperto che i problemi di sovraffollamento sono reali, per cui, come si vede nel film, ci sono una serie di letti a castello messi in un campo da basket dove dormono in duecento e dove vige solo la legge del più forte. Lì i più deboli corrono davvero grandi rischi. A differenza, poi,dell’immaginario comune, non c’è nessuno che ti guarda male quando entri lì dentro: tutti sono all’apparenza sorridenti e disponibili, anche perché uno sguardo storto è una sfida aperta lanciata, qualcosa che può risolversi solo con un duello di sangue.

Come ha convinto agenti e mondo criminale a raccontarsi così apertamente?
Riguardo l’FBI hanno tre o quattro agenti che fanno consulting per chi fa film su di loro perché, anche quando si parla di corruzione, vogliono che venga raccontata dall’interno. L’agente della DEA, invece, è un amico di Benicio Del Toro che lavora spesso con lui. Far parlare i criminali inaspettatamente è la cosa più facile al mondo: sono quelli che si raccontano più apertamente e che individuano all’istante cosa funziona e cosa no in una messa in scena del loro mondo, e che te lo fanno notare subito.

Rispetto al montaggio che grado di libertà ha avuto? È vero che in America sta al produttore l’ultima parola?
Sul montaggio c’è la solita dialettica tra produttori e registi: in America sono i produttori che decidono, ho lottato per molte cose, su qualcuna ho ottenuto quello che volevo su altre no. Ad esempio sono  riuscito a fare un finale più all’europea, loro volevano il lieto fine, anche la musica l’avrei fatta forse in modo più europeo, ma quando si vanno a fare film in America è un po’ come andare in una balera, occorre ballare,  provando magari a fare del tuo meglio.

L’aspetto più complicato del realizzare un film negli USA? 
La grande difficoltà è proprio quella di avere a che fare con una sovrastruttura molto complessa, che controlla ogni aspetto del film molto da vicino. La cosa più difficile è trovare la tua libertà all’interno di questa struttura.

Uno degli aspetti più clamorosi del film è il cast. Erano già tutti coinvolti nel progetto?
Lo era Rosamund Pike. Appena letta la sceneggiatura avevo però una serie di cambiamenti sul suo ruolo, inizialmente era un personaggio del tutto buonista che tradiva quasi per sbaglio. L’ho dovuta incontrare per proporle i cambiamenti, in America funziona così, e per fortuna lei ha accettato.

Con Clive Owen, invece, com’è andata?
Il film che avevo fatto precedentemente gli era piaciuto. Inoltre avevo lavorato bene, da un punto di vista di rapporto regista-attore, con Benicio Del Toro. Notizia che si è diffusa e che aiuta molto all’interno della comunità di attori americana, che si è rivelata in generale accogliente e ben disponibile rispetto ai copioni che ho proposto. 

Common è una sua scelta?
Ho incontrato diversi agenti in borghese e sono rimasto sempre colpito da quanto avessero assorbito del linguaggio e dei modi di strada. Un atteggiamento molto rilassato che avevo rivisto in varie interviste rilasciate da Common.

A che progetti sta lavorando in questo momento?
Sto scrivendo insieme a Nicola Guaglianone una serie per Wildside dal titolo provvisorio Mafia Princess. E’ ambientata nella Milano degli Anni ‘80, con protagonista un’adolescente che entra in contatto con la ‘ndrangheta presente sul territorio. Sarà una serie molto divertente, trasmessa da Amazon Prime, in cui sto cercando di dare un po’ di quella musicalità narrativa dei fratelli Coen, caratterizzata da un misto tra commedia e crimine. Sto preparando, poi, un film da girare in Polonia l’estate prossima sulla vita di Jan Karski e un altro progetto che avrà nuovamente per protagonista Benicio Del Toro.

Cosa pensa della corsa di Bellocchio verso l’Oscar? Lei che conosce così bene la cultura americana, sa immaginare se potranno apprezzare e capire un film come Il traditore?
Io non credo in Dio, credo in Marco Bellocchio! Sono praticamente una sua groupie, ho fatto il mio esordio da attore con lui e adoro tutto quello che fa, è sempre misurato e non sfocia mai nel narcisismo. Anche Il traditore mi è piaciuto moltissimo, non so dire se verrà del tutto compreso in America, ma sicuramente nel film c’è un’alta dose di autenticità che gli americani sanno percepire e apprezzare.

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09 Ottobre 2019

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