TORINO – Chi sono I figli della notte, i giovanissimi protagonisti dell’opera prima di Andrea De Sica, unico titolo italiano in concorso al TFF, in sala con 01 dal 31 maggio? Adolescenti alto-borghesi, rampolli di famiglie di industriali o di politici, futura classe dirigente del nostro paese, ma con qualche tratto borderline che li ha portati in questo esclusivo collegio chiuso tra le montagne innevate dove saranno non solo istruiti al marketing e all’alta finanza ma anche alla manipolazione e ai giochi di ruolo, perché se devi licenziare cento operai non puoi farti venire tanti scrupoli. Ispirato a storie di vita vissuta ma costruito come un fiaba noir con tanti echi di cinema, da Lynch a Tati a Bellocchio fino alla metafisica di un regista come Yorgos Lanthimos, I figli della notte è la storia di Giulio (Vincenzo Crea), un diciassettenne orfano di padre che la madre manda a studiare in questa scuola dove è proibito l’uso del cellulare se non mezz’ora al giorno, ma dove la trasgressione è in qualche modo codificata sotto lo sguardo dell’educatore Mathias (Fabrizio Rongione). Ingenuo e delicato, Giulio lega con il ribelle Edoardo (Ludovico Succio), che lo spinge a uscire dal guscio. Di notte i due scappano dall’edificio austero del collegio e attraversano il bosco fino a un locale notturno dove trovano alcol e sesso. E la giovane prostituta Elena.
Nipote di Vittorio De Sica, figlio di Manuel e della produttrice Tilde Corsi, Andrea De Sica ha 35 anni, è laureato in filosofia, diplomato al CSC, ed è un grande divoratore di cinema, come confida lui stesso. I figli della notte, prodotto da Vivo Film con Rai Cinema, in coproduzione con il Belgio e con l’apporto della IDM Alto Adige, è stato girato a Dobbiaco in un Grand Hotel asburgico che cita volutamente l’Overlook Hotel di Shining e che ospitò Gustav Mahler mentre componeva la Settima Sinfonia.
Da cosa nasce il film?
Dalla storia di persone a cui sono legato che sono state in collegio. Anche se può sembrare anacronistico negli anni 2000. Questi incontri sono stati la spinta per raccontare un universo giovanile che mi sembrava poco esplorato, almeno nel nostro paese. Volevo mostrare un disagio che non è legato all’emarginazione sociale, ma non per questo è meno profondo. Questi ragazzi a 16 anni sono abbandonati a se stessi, sono soli, e possono fare delle scelte che segneranno indelebilmente la loro vita. Eppure il loro mondo non esiste nel cinema italiano di oggi.
Al di là dell’ispirazione concreta, il film non ha una cifra realistica, ma piuttosto onirica e anche cinefila con tante citazioni.
Mi sono lasciato trasportare dalle mie fantasie e da un’idea di cinema che avevo in mente. Ho costruito il film insieme agli sceneggiatori Mariano Di Nardo e Gloria Malatesta e con i produttori Gregorio Paonessa e Marta Donzelli. Siamo al confine tra film sugli adolescenti e film di genere. E’ una storia di formazione ma con qualcosa di provocatorio, perché volevo parlare di adolescenti non solo in termini di buoni sentimenti o di situazioni divertenti. Questi ragazzi sono borderline ma anche integrati nella società. Il protagonista è un ragazzo normale però è potenzialmente pericoloso e domani magari sarà a capo di una grande azienda.
Come ha scelto i due giovani interpreti, molto efficaci?
Il film deve molto alla loro intensità. Abbiamo incontrato più di mille ragazzi, nelle scuole e in strada. Ma cercavo al di là della faccia, anche qualcuno che sapesse recitare. Ho scelto Vincenzo Crea, che aveva fatto Appartamento ad Atene qualche anno fa quando era ancora bambino, e Ludovico Succio, visto in un film di Eugène Green, La Sapienza. Insieme a loro abbiamo trasformato il copione, ci siamo dati molto tempo per elaborarlo.
Come ha lavorato sull’aspetto fiabesco della vicenda?
Nel film c’è anche la favola di Hansel e Gretel, con la casetta nel bosco. Non volevo uno sguardo freddo e giudicante, ma una dimensione affascinante.
La trasgressione fa parte del pacchetto educativo in questo collegio.
Io la definisco una trasgressione controllata. Nella nostra società la trasgressione si può vendere, comprare, dimenticare e cancellare.
Cosa ha ereditato da suo nonno Vittorio in termini cinematografici?
Sicuramente il rapporto genitori-figli. I ragazzi si trovano a dover sopravvivere alle scelte altrui come si vede ad esempio in un film di mio nonno che ho tenuto ben presente, I bambini ci guardano. Un film girato a misura di bambino con macchina da presa tenuta bassa come in E.T. Lì un bambino deve sopravvivere alla scelta di separarsi della madre. Ma anche i miei personaggi devono sopravvivere o morire.
Essere figli d’arte è un vantaggio o una difficoltà?
Paradossalmente è stato un handicap più essere figlio di Tilde Corsi che di Manuel De Sica. Spesso mi sentivo dire, presentando un progetto: “perché non ti fai produrre il film da tua madre?”. Con Gregorio Paonessa è stato diverso, perché è un produttore con uno spirito libero, con lui avevo già lavorato per un documentario girato insieme a Daniele Vicari. Forse adesso la cosa più faticosa sono le tante domande su mio nonno, ma questo è inevitabile.
Lei si è occupato personalmente anche delle musiche del film. Come mai?
Le musiche avrebbe dovuto farle mio papà, ma è venuto a mancare e non volevo sostituirlo con nessuno, il film è dedicato a lui. Così ho provato a scrivere delle cose alla tastiera da solo. Ed è andata bene, ora vorrei continuare a fare il musicista.
Lei usa anche una famosa canzone degli anni ’30, Vivere senza malinconia, interpretata da Pavarotti.
Era nel Giardino dei Finzi Contini nella versione cantata da Tito Schipa, ma nel mio film ha un senso rottura, vuole essere un momento vitale e non malinconico o tragico.
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