American Honey, il film-karaoke di Andrea Arnold

Due volte Prix du Jury a Cannes con Red Road e Fish Tank, la regista britannica Andrea Arnold ritenta il concorso con il suo primo film girato in America, l'adrenalinico American Honey


CANNES – Due volte Prix du Jury a Cannes con Red Road e Fish Tank, la regista britannica Andrea Arnold ritenta il concorso con il suo primo film girato in America, l’adrenalinico, frammentario e in parte inconcludente American Honey. E’ la storia di un gruppetto di adolescenti marginali che girano gli States in un van facendosi di crack, alcol ed erba e cercando di vendere porta a porta abbonamenti a riviste (non si capisce bene se esistano veramente o siano una truffa), ma più che altro cercando di far leva sui sensi di colpa di una classe media sempre più assediata dal degrado e dalla disperazione per rimediare qualche dollaro. Come nel precedente Fish Tank, del 2009, alla cineasta interessa soprattutto concentrarsi sul destino di una giovane donna sospesa tra adolescenza ed età adulta, la 18enne Star (la rivelazione Sasha Lane), una ragazza senza famiglia (la mamma è morta di overdose di metanfetamine), che si unisce al gruppo dei venditori ambulanti sull’onda di un incontro casuale con l’affascinante Jack (Shia LaBeouf). Tra loro sono faville, ma a contenderglielo c’è la spregiudicata giovane manager del gruppo (Riley Keough) che impartisce punizioni, anche corporali, ai “perdenti”, quelli che alla sera non portano abbastanza soldi.

Morte di un commesso viaggiatore di Arthur Miller naturalmente non c’entra nulla e le parentele sono piuttosto con certo cinema disfunzionale sull’adolescenza americana tra Gus Van Sant e Harmony Korine (in particolare Spring Breakers). Ma la prima ispirazione viene da un articolo del New York Times del 2007 dal titolo “Porta a porta, lunghi viaggi e magre ricompense” scritto da Ian Urbina. Affascinata da questa subcultura, la Arnold ha seguito per circa un anno uno di questi gruppi facendo la loro vita, dormendo nei loro stessi alberghi, seguendo tutte le loro avventure e utilizzando alcuni di loro per le riprese. “Sono andata a sedermi sulla spiaggia e guardavo le migliaia di adolescenti che passavano. Ho praticamente fatto una parte del casting nel parcheggio di un Walmart”. E proprio lì la 55enne cineasta ha trovato Sasha Lane, studentessa al primo anno dell’università del Texas che non aveva mai fatto cinema prima. E’ suo – e contemporaneamente della regista – lo sguardo privo di giudizio e moralismo, ma anche privo di prospettive, sull’America profonda che il film getta nelle sue due ore e 40, a tratti indisponenti, di vagabondaggi.

Piatto forte del film la musica, spesso cantata dai ragazzi in una sorta di film karaoke: da Sam Hunt a Kevin Gates, da Lee Brice a Juice J., mentre la colonna sonora è composta di canzoni che raccontano il meglio il country del 2015 e delle hit del cosiddetto trap (genere musicale vicino all’hip-hop) che viene dal Sudamerica. “La musica – spiega la regista – è la poesia quotidiana della vita di questi ragazzi. Come capita sempre per tutto ciò che amiamo”. Per questo lavoro, che ha molto del documentario, sottolinea, “ci siamo ripromessi di dormire nei motel economici che usano loro e di spostarci senza prendere aerei ma solo on the road, utilizzando solo figuranti del luogo per 56 giorni di riprese”.

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15 Maggio 2016

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