TROPEA – Alice Tamburrino, nemmeno trent’anni, precisamente 27, fa i primi passi nel cinema come fonico di doppiaggio, anche se stare dietro la macchina da presa sembra il suo stato naturale: Dark Compost è il suo secondo cortometraggio, tra i 6 titoli in gara nel Concorso dedicato al Tropea Film Festival, sezione curata da Valentina Gemelli.
Alice, il tuo debutto assoluto dietro la macchina da presa è stato con Level Up: quando e come arriva l’arte della regia nella tua vita, e cosa di questo linguaggio hai compreso appartenere alle tue corde?
Io, da piccola, non ho avuto una mamma ‘normale’, mi spiego meglio (ride): piuttosto che mettermi davanti alla televisione a guardare Peppa Pig, mi diceva ‘vieni, che ti faccio vedere Pulp Fiction’, e avevo la tenera età di quattro anni la prima volta. Mi ricordo però che, pur non sapendo esattamente cosa fosse, sentissi di voler fare ‘quella roba lì’. Mia madre tutt’ora scatta sempre fotografie, riprende qualsiasi evento della vita, per cui sono sempre cresciuta con le immagini intorno a me e ancor prima di fare l’accademia di cinema, qualunque cosa mi venisse raccontata, ho il ricordo di averla sempre tramutata nella mente come un’immagine. Poi, lavorando come fonico di doppiaggio, mi sono pagata gli studi per la regia.
Da autrice under 30, come stai lavorando per cercare di tenere alta l’asticella, per trovare il tuo posto nel mondo (del cinema)?
Io mi sto autoproducendo tutti i miei lavori e sto cercando in qualunque modo di distribuire questo ultimo cortometraggio, anche con una diffusione indipendente nel circuito dei festival: non mi dico ‘voglio partecipare e vincere’, ma il mio intento è cercare di essere presente, anche per conoscere persone, sentire cosa ne pensino gli altri del mio lavoro, altrimenti se rimane dentro casa lo guardiamo mia madre, mia zia e io. Sto continuando a scrivere, a proporre miei progetti e, prima o poi, spero qualcuno crederà in me.
Parliamo di talento: non tutte le persone che praticano un’arte lo possiedono; il talento è una virtù innata, da coltivare, che nessuno ti insegna. Tu hai compreso cosa significhi ‘avere la stoffa’, cosa sia ‘il talento’ appunto?
Non so se io abbia talento, e… questa domanda è veramente difficile! Io lavoro spesso come assistente e aiuto regia, per progetti di altri, do una mano più a livello operativo, e non parliamo di grandissime produzioni: mi capita di avere delle idee e suggerirle ma non sono spesso progetti miei. Cosa significhi essere regista talento? Mmm… io sono all’ 1% della regista che vorrei essere: per me il regista dev’essere, anzitutto, una persona consapevole e rispettosa, di cosa stia facendo e di cosa stia parlando, perché purtroppo vedo spesso prodotti per cui sembra che, chi li ha diretti, abbia avuto un approccio tale per cui minimamente non gli appartengano, e si vede. Essere regista è dare l’emozione a chi vede e fargliela sentire: io mi accorgo di quando una cosa sia sentita e quando non lo sia e secondo me, essere regista, significa sentire e avere la capacità di poter trasmettere quella sensazione alle persone; che poi lo si faccia con un’inquadratura geniale, o meno, non importa, ma fondamentale è il modo in cui racconta.
Poter far circolare il proprio film nei festival, quindi mostrarlo a un pubblico, sempre nell’ottica dell’essere ‘una debuttante’, che valore pensi possa avere per la crescita e la carriera?
Quello che vorrei, quando partecipo ai festival, è capire se ciò che volevo raccontare sia arrivato, ovvero cerco il confronto per crescere, non voglio il ‘è tutto bello, ciao’. Io vorrei partecipare a più festival possibili per avere un riscontro sul mio lavoro, se funzioni, e soprattutto se sia arrivato… quella è la soddisfazione.
Per il mestiere di regista, hai affrontato un percorso di studi specifici o sei autodidatta, hai imparato sul campo?
Ho guardato film e imparato sul campo, soprattutto. Ho fatto un’accademia di un anno, REA Academy a Roma, da cui ho appreso un’infarinatura, ma nella realtà mi sono comprata la camera, vado in giro e, se voglio raccontare una cosa, la giro, provo, me la monto e la guardo: se mi sembra riuscita decentemente decido che si possa lavorare sopra. Se no, ricomincio da capo. Poi, davvero, ho guardato un numero ‘eccessivo’ di film: mi vergogno un po’ a dirlo, pochi sono gli italiani, ma molti stranieri.
Hai un immaginario di riferimento?
Sì, Tarantino.
Dark Compost è il corto che presenti al Tropea FF: in breve, come nasce, cosa racconta, che esigenza artistica esprime?
Questo corto è nato da una sinossi di due o tre righe che mi mandò una mia amica sceneggiatrice, Giulia Orati, poi l’abbiamo cominciata a sviluppare insieme; parla dei rapporti, come possano diventare morbosi o non, a seconda di come uno ha vissuto e di quello che è il proprio rapporto con la società e come questo maturi nel tempo, rispetto al proprio passato. In questo caso, in modo estremo, naturalmente.
Il cinema italiano presente che opportunità dà ad una giovane regista, e quali difetti invece avverti, che potrebbero essere migliorati proprio per il futuro della tua generazione?
Secondo me, non ci stanno dando l’opportunità di essere visibili, è difficile relazionarsi con produttori, produzioni: non c’è un modo diretto di presentarsi, di dire ‘ehi, io faccio questo, che ne dici? ti fa schifo? dammi un riscontro’. Questa dinamica manca. Il cinema italiano potrebbe dare molto di più anche rispetto ai generi, sperimentare molto di più. Sono pochi per ora i veri esprimenti, siamo sempre portati verso il dover piangere o dover ridere, non c’è mai una via di mezzo o un altro modo di poter raccontare. Noi italiani siamo maestri cinematografici, quindi il problema è anche il pubblico, ormai educato a un determinato tipo di prodotto e infatti noto spesso che, quando c’è qualcosa di innovativo, il pubblico italiano tende a rispondere dicendo ‘eh… ma… è italiano’, ma se la stessa cosa la vedono fatta dagli americani allora è ‘pazzesca’. Non voglio elevarmi a morali, sono considerazioni rispetto al fatto che ci sia tanta gente capace, magari anche pronta a sbagliare, per cui si potrebbe fare molto, molto di più.
E – proprio pensando alle opportunità – la grande produzione di serie, i prodotti di e su piattaforma, lo sono davvero?
Secondo me non è così, è un mondo molto complesso, non solo in Italia. E comunque fare serialità è un altro lavoro, rispetto al cinema: altra regia, altra scrittura, non è una palestra. Secondo me è proprio una cosa diversa rispetto a un film. Certo, è un mettersi alla prova, questo sì.
Progetti per il futuro.
Sto lavorando a qualcosa di nuovo, c’è l’idea per un terzo cortometraggio e… ho scritto un lungo. È un thriller, sul genere di Dark Compost, basato sulle relazioni.
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