CANNES – Una fiaba che mescola passato e presente, antiche civiltà e mondo contemporaneo, materialismo bieco e dimensione ultraterrena in cui i vivi e i morti convivono e comunicano. Con La chimera Alice Rohrwacher torna in concorso a Cannes, dopo il premio per la sceneggiatura di Lazzaro felice (2018). E’ la terza italiana in competizione e quasi in chiusura di festival affronta la sfida, sostenuta da un bel cast internazionale, in cui spicca Isabella Rossellini nel ruolo di Flora, matriarca e signora di una grande casa di campagna, incompresa dalle figlie.
Protagonista è il britannico Josh O’Connor (The Crown), un archeologo che ha la dote di “sentire” il terreno e scoprire le tombe etrusche, e ha legato con un gruppo di tombaroli locali, pronti a tutto, anche a decapitare una statua di sublime bellezza, per racimolare qualche soldo vendendo i ritrovamenti al misterioso Spartaco, mercante d’arte e di antichità. Arthur è appena uscito di prigione, ha pagato lui per tutti. E intanto la sua amata Beniamina è morta.
Con la magnifica fotografia di Hélène Louvart, La chimera è arricchito da altre presenze: Alba Rohrwacher, la brasiliana Carole Duarte, Vincenzo Nemolato. Prodotto da Rai Cinema e tempesta film con Ad Vitam e Amka, uscirà in Italia con 01 Distribution. Isabella Rossellini racconta com’è nata l’amicizia con Alice: “Tutto è cominciato da Alba, con cui ho fatto La solitudine dei numeri primi. Dopo ho visto tutti i loro film e sono rimasta incantata dal talento di Alice. In questo film, girato praticamente sotto casa sua, si sente la vita di Alice e di Alba, l’eredità del loro padre apicultore. Hanno una vera conoscenza della vita contadina, che è stata messa da parte e ora viene riportata in superficie”.
Intanto Alice Rohrwacher sta già lavorando al nuovo progetto, che si basa su otto fiabe tradizionali che echeggiano la realtà contemporanea, “un film che spero parlerà agli adulti come ai bambini, che sia misterioso, dolce, crudele e rivelatore”.
Alice, nel film, tra l’altro girato in due stagioni, è forte il rapporto con il territorio e con le fasi della natura.
I film sono per me un’occasione per intrecciare legami tra le cose, anzi per raccontare il rapporto tra le cose, l’uomo e la natura, che è centrale nella mia vita. Qui si parla anche della relazione con l’invisibile che per me conta quanto il visibile. Passato e presente, sopra e sotto sono altrettanto importanti.
Che cos’è la chimera?
E’ qualcosa che cerchiamo e che non riusciamo a raggiungere. Per i tombaroli è il maledetto bisogno di soldi che affligge l’umanità, per l’archeologo Arthur è l’amore perduto con Beniamina. Ho voluto inserire un personaggio così diverso, romantico, tra i tombaroli, con la loro mascolinità esibita. La chimera è la consapevolezza che viviamo in un paradiso che cerchiamo in tutti i modi di trasformare in un luogo infernale. Nel mio lavoro cerco di raggiungere qualcosa che sfugge continuamente.
Come affronta il concorso di Cannes, insieme a due giganti come Nanni Moretti e Marco Bellocchio?
Ovviamente sono molto emozionata. Quando ci si presenta a una platea internazionale così c’è sempre un momento di sano panico, ma mi sento protetta dall’aver lavorato con attori che stimo in una maniera incredibile. E sono onorata di essere in concorso con maestri come Moretti e Bellocchio, ma anche Loach e Kaurismaki. Sono tutte persone che hanno alimentato la mia libertà di sguardo.
I tombaroli sono una realtà tipica del territorio della Bassa Toscana e dell’Alto Lazio, dove lei è cresciuta.
Fin da piccola sentivamo raccontare di questi maledetti tombaroli che di notte rubavano nelle tombe. E’ un gesto che va contro la legge dei vivi, ma anche contro la legge dei morti, la legge della notte e dell’invisibile. Un gesto che mi aveva sempre turbato. Come è possibile che dopo 3000 anni degli uomini si sentano in diritto di scavare le tombe, rubare gli oggetti e rivenderli? Non vedono più il sacro? Sono uomini che si affermano come nuovi e che creano un nuovo legame con la natura e con le cose. Io immagino il mondo degli etruschi come parte di un sistema in cui l’uomo è legato agli animali, alla natura, con arabeschi profondi che collegano gli elementi. Quando questo filo si spezza, si è soli.
C’è una tradizione esoterica legata al mondo infero con personaggi che attraversano la porta dell’aldilà, come Orfeo alla ricerca di Euridice.
Sì, nella mitologia si parla di questa porta. Sono storie in cui la signora Flora, il personaggio di Isabella Rossellini, crede. E crederci fa sì che diventino vere. Arthur sa che è una storia, ma è preda dell’incanto che la madre di Beniamina, la donna da lui amata e ora scomparsa, emana. E’ una realtà mistica raccontata in maniera realistica, come parte della vita. Io credo nell’innocenza e credo che lui possa trovare Beniamina.
Prova nostalgia per un mondo in cui c’era un’integrazione tra vivi e morti?
Non mi sento nostalgica anche se il personaggio di Arthur è un nostalgico per eccellenza, proprio perché sente il vuoto. Non ho pensato al desiderio di tornare al passato, ma di guardare al passato in maniera viva, che non sia celebrativa o non comporti la dimenticanza e l’oblio.
Racconta anche un’utopia tutta femminile, una piccola comune di donne che condividono tutto.
C’è una speranza molto forte nel mondo che il personaggio di Italia, la straniera, crea, una comune con altre donne che sembra destinata a fallire perché hanno i pidocchi e dormono tutte insieme in una stazione abbandonata. Invece questa rappresenta l’attitudine femminile a non appropriarsi delle cose, anzi a dare alle cose nuova vita.
Come ha vissuto l’esperienza dell’Oscar per il suo cortometraggio Le pupille?
E’ stato vedere l’altro lato di una cerimonia che avevo solo visto nella televisione. Isabella mi ha spiegato che è solo una trasmissione tv e che durante gli stacchi pubblicitari tutti cambiano, si abbracciano e si rilassano. L’Oscar ha rafforzato il mio legame con Alfonso Cuaron che mi ha seguito e spronato in questo progetto. Il viaggio nel mondo americano ci ha unito molto.
E’ un film molto scritto o c’è improvvisazione?
C’è una sceneggiatura che abbiamo seguito molto, non ci sono scene improvvisate. Quello che ho chiesto agli attori è un livello di ironia perché leggendo la pagina scritta tutto sembrava drammatico e romantico, con un eroe che cerca la sua amata nell’aldilà. Però nel film c’è anche ironia, tenerezza, accettazione del ridicolo. Per esempio Carole Duarte ha aggiunto al personaggio di Italia una certa comicità.
Come ha composto il cast?
Volevo fare un film libero. Con tutte queste catene della narrazione che ci sono con le piattaforme, il cinema deve soprattutto liberare, essere sganciato. In questa incredibile libertà ho immaginato una storia così locale, con un gruppo di tombaroli in Etruria negli anni ’80 e mi serviva lo sguardo dello straniero. Del resto, l’Italia è una penisola in cui si sono stratificati arrivi e partenze, e l’archeologo inglese è anche un omaggio al Grand Tour dei nordici in Italia e nel Mediterraneo. Un uomo che non ha radici, cerca la sua radice che è Beniamina, mentre i tombaroli, persone radicate alla terra, creano una tensione. Di Italia sapevo che dovesse una scappata di casa, un’esule, sola. Arthur e Italia, infatti, sono due solitudini che potrebbero incontrarsi. Quando ho parlato con Carole Duarte su Skype, la vedevo muoversi e mulinare le braccia, era un funambolo, quella che cercavo.
E Isabella Rossellini?
Era il mio sogno da sempre, la ammiro come attrice, come donna e ancor più come anima. E’ sconfinata. Amo tutto quello che fa: anche la sua fattoria. Tra gli oggetti di scena è saltata fuori una vecchia rivista in cui c’era in copertina Isabella e sua sorella appena nate. Beh, una donna che è sulla prima pagina da quando è nata ed è rimasta così umile è una maestra per tutti.
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