Alessio Boni a Trento: “La più grande scalata è la ricerca dentro se stessi, così guardo alla regia cinematografica”

L’intervista all’attore per 'Legami', in cui è voce, interprete e complice del racconto di Elio Orlandi, alpinista, scrittore, regista, celebre protagonista internazionale dell’alpinismo dolomitico e patagonico, che celebra 50 anni di attività


TRENTO – È alpinista, scrittore, regista. È uno dei più celebri interpreti internazionali dell’alpinismo dolomitico e patagonico. Quest’anno festeggia i 50 anni di attività. Lui è Elio Orlandi, protagonista dello spettacolo Legami, in cui racconti, ospiti, aneddoti, musica e letture spalancano l’immaginazione e ampliano l’immaginario sulla montagna, con la complicità della voce di Alessio Boni.

Alessio, la montagna – come simbolo, metafora – cosa rappresenta? È qualcosa che abbraccia l’uomo, o che domina e incombe? È una verticalità troppo ripida per l’essere umano o una via con cui entrare in confidenza per conquistare la cima?

Ho sempre sentito la montagna protettiva, siccome non ho mai avuto il senso competitivo dell’alpinista, come peraltro non l’ha Elio Orlandi: essendo io nato a Sarnico, sul lago, ho sempre avuto prossime montagne da ciaspolate e sci; la verticalità che si stacca dalla terra e che sale è come se ti facesse capire che la potenza sta lassù, e se tu scali, a un certo punto, non puoi nemmeno respirare molto bene, fa molto freddo, quindi è come se la montagna ti dicesse: ‘stattene sotto, ci penso io a proteggerti’; sento la montagna protettiva, dai venti, dalle intemperie, se le prende lei per te. Penso alle Alpi, che si pigliano tutto: da Courmayeur alla Val Badia ho sempre sentito una sorta di corona di protezione, sin da bambino.

Lei, in quanto bergamasco appunto, non è uomo di montagna ma di Prealpi sì, le cime le riconosce abbastanza famigliari: per il suo mestiere, ha mai usato la montagna come strumento professionale? Come spazio in cui convivere con la solitudine, che agevola la concentrazione, oppure come palestra naturale dove fare i conti con il senso della fatica, o in cui ristabilire il proprio posto nel mondo dinnanzi alla monumentalità del creato?

Sì, avviene, come quando sono stato sopra Bolzano, a Nova Levante, a girare La ragazza nella nebbia di Donato Carrisi: quasi ogni giorno c’era per me una passeggiata in alta quota, consigliata dalla gente del posto; nelle cuffie ascoltavo magari la scena del giorno dopo, che fosse con Toni Servillo piuttosto che con Galatea Ranzi, ma camminare in montagna era un modo per concentrami, finché mi fermavo, nel silenzio e nello spazio, che però non è l’infinito del mare, quello che ti fa partire pensieri filosofici – e penso a come sia nata la Filosofia greca, perché la montagna è finita, tu vedi l’altra parte della roccia, la scruti, guardi le vie, vedi la vetta con cui in qualche modo ‘dialoghi’, perché è un elemento talmente potente con cui davvero puoi ‘parlare’, perché ti avvolge talmente, senza giudizio, per cui ti senti così accolto che ti lasci andare; da un analista non ti lasci così andare perché sai che c’è una persona, con dei pregiudizi, mentre la Natura non ce li ha; tu puoi essere un camorrista, uno stupratore, un mafioso, puoi essere qualsiasi cosa ma la Natura ti accoglie. Lì, come nel deserto, si sente respirare la terra: immagino gli alpinisti che bivaccano a grandi altitudini con un chiodo appeso, a un chiodo appendono la loro vita, è qualcosa di potentissimo.

Non è la prima volta che per mestiere si misura con la montagna, in questa occasione con Elio Orlandi, ma è già successo anche per Sul tetto del mondo, dedicato a Walter Bonatti: cosa ammira, assorbe e elabora per sé da questi umani conquistatori di grandi cime, capaci di confrontarsi con l’imprevedibilità e con la bellezza della Madre Natura?

Bonatti per noi bergamaschi è un grande come Caravaggio, sono orgogli orobici: Bonatti era già un mito, che poi ho studiato di più per il film. Tutti questi alpinisti, tra cui anche Elio Orlandi, hanno in comune la libertà di potersi prendere il proprio tempo e scalare la verticalità, un tempo proprio e non quello del linciaggio della società, soprattutto quella occidentale. Queste persone hanno in comune, tutti, una scalata dentro di sé: noi siamo abituati, nella nostra società, ad avere una spada di Damocle sulla testa, da quando hai tredici anni che devi scegliere il liceo perché infine dovrai diventare notaio perché il nonno era notaio, ovviamente senza nulla contro i notai, ma per capirci. Quindi, l’identità che noi creiamo, non è un talento, ma si forma intorno alla società che ti circonda: l’identità della nostra professione è una cosa creata dall’Occidente, questo è il Super Io di Freud, ma il proprio Io quante persone lo cercano, lo sfruculiano? Pochissime… pochissime. Questi grandi scalatori lo fanno: tutti dicono che la più grande scalata sia la ricerca dentro se stessi; questo è il denominatore di questi grandi alpinisti: la verticalità interiore.

Qual è la cima che si prefigge di dover sempre conquistare in ciascun progetto che decide di percorrere, per esempio adesso per il Don Chisciotte di Fabio Segatori?

È sempre, sempre difficile, ma ciò che ho in mente è riuscire a fare cento passi indietro – come fanno Bonatti o Orlandi, per far parlare la montagna, così io faccio per far parlare il personaggio e assolutamente non immettere nulla di Alessio, nessun pregiudizio, nessuna etica morale e nessuna smorfia; bisogna rispettare l’intoccabilità di personaggi come Caravaggio o Don Chisciotte, di cui io non ho nemmeno un capello, così da far arrivare al pubblico l’essenza, almeno rievocandola lievemente. Infatti, quando mi hanno proposto dei film in cui mi hanno detto ‘devi essere te stesso’ non li ho mai fatti: io sono me stesso nella mia vita ma se devo fare un personaggio è interessante quanto più distante da me, cercando atteggiamento, camminata, espressione di… Don Chisciotte della Mancia, non miei. E’ l’imperfezione vera che rende autentico, che a volte recitando non viene fuori fino in fondo: rendere immediato e sorprendete il personaggio, che è altro da te, è la cima più alta di ogni progetto.

C’è una vetta, professionale, che non ha ancora conquistato, ma a cui guarda e con cui le piacerebbe misurarsi? 

È una vetta alta, per tutta una serie di cose complesse, ma ho in mente di passare alla regia cinematografica: non è così semplice ma è una vetta che vedo, c’è grande difficoltà di avvicinamento, ma sono dieci anni che sento questa necessità, che non è dimostrazione ma proprio una necessità; c’è un gigante come Marcello Mastroianni che non ha mai sentito di fare la regia e invece io sì, come Sergio Rubini, che da attore l’ha fa e anche benissimo. Ho appena finito di girare il Leopardi di Rubini, in cui faccio il padre Monaldo: ammetto che, insieme a qualche mostro sacro, come Cavani, Lizzani, Andò, le sfumature che chiedeva Sergio erano così minuziose e meravigliose per cui sono stato benissimo, ma questo succede perché è un attore, quindi è consapevole; ci sono registi che non sanno niente della recitazione, tecnicamente sono dei mostri, ma non ti dicono niente, e tu ti devi autogestire e cercare di fare il meglio che puoi; per Sergio il mio peana: è stata una goduria. E penso anche a un caso più unico che raro, quello di C’è ancora domani di Paola Cortellesi, strepitosa. Per un ipotetico futuro (da regista) ho più di una storia, il cassetto è sempre semiaperto: il cassetto dei sogni non chiudetelo mai, che entrano e escono.

La fotografia che accompagna l’intervista è di © Gianmarco Chieregato. 

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