C’è un giurato italiano, a Locarno 2000. E’ Alessandro D’Alatri. Simpatico, grande divoratore di cinema di qualsiasi parte del mondo, retrospettiva russa compresa, sempre schierato ma mai polemico in modo sterile. Qualcuno ha scritto che avrebbe rinunciato al cinema, dopo la batosta di I giardini dell’Eden. Ma lui smentisce: “Non è vero che ora faccio soltanto pubblicità, sono pignolo e sto cercando il progetto giusto. Ne ho due: uno sui rapporti interpersonali che si sono deteriorati e influiscono negativamente sulla famiglia e sull’amore; l’altro sul senso di colpa. Nella crisi delle ideologie, il perdono, che è una soluzione importante, cristiana, viene gestito con estrema facilità. C’è ormai una sorta d’inefficace ‘perdonismo’ di fatti terribili. E viene a mancare la riflessione”.
Usa molto internet, D’Alatri. E lavora con le mail e le chat, per scrivere un soggetto a distanza con un amico che adesso sta in Spagna. E’ anche molto orgoglioso della sua collaborazione con cinematografo.it come “direttore artistico”.
Meno contento delle sorti del cinema italiano. E di come facciamo autopromozione. “Siamo pessimi promoter di noi stessi. Abbiamo acquisito una specialità negativa, l’arte di piangerci addosso. E abbiamo perso negli ultimi vent’anni una cosa fondamentale: l’assetto industriale del cinema. L’unica possibilità produttiva per un autore oggi è il finanziamento pubblico, compresa la televisione. Questo ha consegnato la parte creativa nelle mani della burocrazia. L’industria del cinema però va difesa ‘comunque’. Proprio come difendiamo quella automobilistica. Negli ultimi dieci anni abbiamo recuperato qualcosa: ci sono film premiati, autori che raggiungono i mercati esteri, noi invece non riusciamo a valorizzarci. Al London Film Festival sono passati dieci film italiani quest’anno. Qualcuno ha visto questa notizia in rilievo sui giornali?”.
Non tornerà di sicuro a Venezia, dove nell’anno dei Giardini dell’Eden i giornali italiani quasi lo massacrarono. “Continuiamo a darci addosso – riflette – abbiamo un atteggiamento dequalificativo nei confronti della nostra industria. Provate a immaginare di parlar male, per esempio, dell’industria casearia italiana. Per un giorno, due, tre, una settimana. Arrivano i carabinieri a casa, state tranquilli. E hanno ragione. Ho letto cose incredibili suo conto del cinema italiano: Curzio Maltese ha scritto che Francesca Archibugi doveva smettere di lavorare. L’onorevole Tremonti in televisione ha detto che abbiamo rubato i soldi ai pensionati con i finanziamenti pubblici. Ma siamo impazziti? E poi vogliamo che il pubblico scelga un film italiano che, tra l’altro, esce in quattro copie in una multisala tra Mission Impossibile e Il gladiatore. Il caso di Pane e tulipani è esemplare. Soldini ha fatto una commedia elegante, una cosa nella tradizione del cinema italiano migliore. Fosse stato per Medusa avrebbe ottenuto un paio di settimane di cartellone, forse tre con Cecchi Gori. Il Luce ha creduto nel film. E dopo alcune settimane la voce è girata e ha guadagnato miliardi e miliardi. Il Luce è diventato una realtà seria del cinema italiano di questi anni”.
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