Lui, la Francia, la conosce bene. Proprio da un Erasmus in questo paese è partita la sua avventura, ed è qui – dopo una breve parentesi belga – dhe ha trovato le condizioni giuste per emergere. Il nuovo film si spinge su territori più legati alla finzione (sebbene l’improvvisazione mantenga ancora un ruolo importantissimo) e anzi sconfina nel fantasy e nel fiabesco, basandosi su una serie di leggende della sua terra d’adozione, il Friuli.
Quanto di francese e quanto di friulano c’è nel film?
Francese niente. Friulano tutto. Fino a diciannove anni ho vissuto in un paesino che era pieno di leggende popolari. Era un mondo perduto, negli anni ottanta. Da un lato i drogati e i matti che giravano per il paese, dall’altro le suggestioni di una terra ancora legata al folklore locale. Mi sono riferito ai miei ricordi di bambino, a sensazioni soprattutto. A quell’età, quando ti si racconta una storia, non sono tutti colori blu o rosa. In certi momenti non sapevi nemmeno se la storia era reale o totalmente inventata. Ritorno a quei boschi e a quelle immagini che spesso mi scuotevano, poi naturalmente ho anche altre influenze. La mia voglia di fare film nasce dall’aver visto molti altri film.
Ma c’è un tema, un fil rouge che lega tutto, o sono solo racconti spezzettati che le tornano in mente?
Le suggestioni ci sono. Il cinema mi insegna molto, anche su me stesso. Per tornare al me bambino e cogliere l’essenza primitiva delle cose, scarnifico la storia da tutto ciò che è razionale. Voglio anche avere paura, se necessario. Sono un tipo inquieto, ho pochi amici ma buoni. Sono anch’io in guerra in questa società. Tutto è politica, e la mia scelta è di essere più terra terra possibile, lavorare con gli archetipi, immagini che a tutti possono arrivare. Anche negli espedienti narrativi. Non ho scritto una storia originale. Sono topoi: il lupo, il bosco, il buio, mi ci sono divertito, anche con una certa ironia. C’è una panoplia di luoghi comuni che se facessi l’elenco risulterebbero imbarazzanti. Non ho inventato niente, non sono un genio. Solo uno che ha voglia di imparare, di cercare quello che più gli somiglia.
Questo, però, è cinema di finzione…
Ne L’estate di Giacomo ero moralmente vincolato alla persona con cui lavoravo. A volte questo mi frustrava, ma io penso che, per il mio approccio, più immagini documentarie, grezze e realistiche ci sono, meglio è. Amo gli imprevisti. Amo quello che succede proprio perché sto facendo un film. E che se non facessi un film non succederebbe. Poi al montaggio questo materiale diventa una storia, a prescindere da quello che ho scritto. Anche se, in questo caso, il film è venuto fuori in maniera molto simile a come l’avevo pensata in origine. Ma avendo deciso di fare finzione, l’ho voluta fare per bene: c’è dentro Alice nel paese delle meraviglie e Ulisse, ma naturalmente è solo una proposta tra mille altre.
Ma gli attori, quanto sanno della storia che andranno a interpretare. Pochissimo, il meno possibile.
Però ad esempio Sabrina Seyvecou la conosceva, anzi l’aveva scelta proprio dopo aver letto la sceneggiatura. Ebbene, per me è stato un problema. Perché quando lei è arrivata i dialoghi come li avevo scritti già non mi piacevano e avrei voluto vedere anche la sua fragilità. Forse – ma non è detto – se non l’avesse letta prima si sarebbe potuta lasciare andare maggiormente.
Perché ha scelto di girare in 35mm?
Beh, perché no? Probabilmente bilancia il mio istinto a improvvisare e a lavorare con attori non professionisti. Il dove avere a che fare con la pellicola, gli assistenti e il magazzino mi rimette sulla strada di un cinema fatto in maniera più tradizionale. Amo giocare con le luci, l’oscurità, la sotto e sovraesposizione, mi piace che lo spettatore lavori sulla sua percezione.
Cosa significa il titolo del film?
E’ una frase che ho sentito casualmente da un mio amico, ho trovato che avesse assonanza con quello che stavo facendo. E’ ironica, ed è un po’ come sentirselo dire dalla mamma, o dalla nonna: ‘stai tranquillo, andrà tutto bene’. Quando si parla di tempi felici si parla anche di un periodo storico. Non faccio film politici per parlare di destra o sinistra ma è l’atteggiamento a essere impegnato. Significa che scelgo un modo di filmare ben preciso, e che non posso fare ciò che voglio. O se lo faccio, ha un enso particolare.
Quali sono i simboli ai quali è più legato?
Non è il mio forte, parlare di simboli. Non inserisco niente di particolarmente consapevole. Però c’è la prigione. Avevo voglia di filmare in prigione, c’è il gesto della fuga, e della possibilità di correre verso il futuro. Poi una storia particolare, legata a un tipo che conosceva mio padre, Dino Selva. Fuggito dall’Italia aveva partecipato alla campagna di Russia ed era stato dato per morto. Aveva vissuto mille avventure e poi aveva deciso di tornare, e per farlo si era fatto imprigionare. Come dire, per tornare a essere uomo, devi passare dalla prigione. E poi c’è il lupo, come in Le Fond de l’air est rouge di Chris Marker. E’ l’animale che torna sempre, anche se ufficialmente l’ultimo lupo è stato ucciso nel 1850. Lo puoi uccidere, ma tornerà, è nella natura delle cose. L’esigenza dei popoli è quella di rivoltarsi e ogni rivolta sarà soppressa nel sangue.
Che tipo di pubblico immagina per questo film? Andrà in sala?
Certo, ci andrà, anche se è chiaro che questo genere di film non può prescindere da un passaggio ai festival. Comunque, per me, è un film per tutti. Vorrei che fosse così. Vorrei che il pubblico si riabituasse a vedere e ad ascoltare, anche cose diverse da quelle a cui siamo abituati, o almeno, fatte in maniera diversa. Inizialmente lo avevo pensato anche più realistico. L’ho anche filmato ma non funzionava. Il naturalismo è così borghese. Non mi posso limitare alla storia, devo trovare immagini coerenti con il resto, anche a livello emotivo.
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