Non sembra stanco, Aldo Giuffrè, classe 1924, dopo una giornata zeppa di interviste, sotto il cocente sole della terrazza dell’Excelsior. Non smetterebbe mai di parlare di quella sua straordinaria esperienza con Sergio Leone, quando interpretò il capitano del Buono, il brutto e il cattivo e si trovò di fronte l’algida staticità di Clint Eastwood. Un personaggio, chiave, il suo. “Quando fui chiamato da Leone – racconta – mi sono stupito. Un western girato da un abruzzese, con un napoletano nel cast? Ma era lui che fugava ogni dubbio. Ci conoscevamo, mi invitò a cena e mi affidò la parte. Dopo dieci minuti ero già convinto di essere americano”. Il film, girato nel ’66, di cui la Mostra ripropone il restauro curato dalla Cineteca Nazionale della Scuola Nazionale di Cinema, fa parte del tributo che Venezia ha dedicato a Clint Eastwood. Per l’occasione è stato pubblicato un testo a cura di Angela Prudenzi e Sergio Toffetti. Al Lido c’è anche Tonino Delli Colli, il direttore della fotografia.
Giuffré, Leone non ci mise molto a convincerla.
Sergio era l’unico regista al mondo capace di fare tutto con grande semplicità, come soltanto i grandi sanno fare. Rendeva tutto talmente ovvio che io facevo finta di stupirmi di essere stato scelto solo per dargli soddisfazione. Non era chiuso in una turris eburnea, come molti colleghi, era aperto e colto, in tutti i settori. Era pure collezionista d’arte.
Quale fu il suo rapporto nel corso delle riprese con gli attori americani?
Fu bellissimo, soprattutto con Eli Wallach. Parlavamo delle commedie che lui aveva fatto in America e io in Italia. Clint era riservatissimo, parlava sottovoce pure sul set, non ti dava chiaramente l’aggancio per la battuta. Poi lo doppiò in italiano Enrico Maria Salerno. Una fatica per sentirlo. Ma era un ragazzo educato e civile. E pareva molto grato di quello che gli stava succedendo. Per scioglierlo un po’, Sergio gli dovette mettere un sigaro in bocca. Ma lui non fumava, gli faceva schifo. Sul set c’era comunque un’atmosfera conviviale.
Si discusse molto all’epoca del fatto che il suo personaggio moriva guardando nella macchina da presa. Perché lo fece?
Il mio era un personaggio antiguerrafondaio. Che somiglia a quelli di Uomini contro, dà la vita per un sano motivo. Per questo ho gettato l’ultimo sguardo nella macchina da presa. L’ho fatto inconsciamente. Ma prima ho riflettuto sul rapporto d’amore che mi legava col regista, un tipo di rapporto che consente di denudarsi completamente. Ho sentito che c’era e allora l’ho fatto. Lui ha accettato incondizionatamente il mio gesto. Gli piacque subito.
E il “Famo pausa”?
Lo disse Leone dopo la famosa scena del ponte. Non riuscivamo a girare, perché la diga non teneva. E lui voleva che il ponte saltasse dietro di me. Aveva pure molta fretta. Finalmente si ruscì a organizzare il tutto, con le mine per far saltare il ponte. Ma dopo il solito duetto Leone-Delli Colli, si vede, non si vede, venne pronunciata la frase: “Siamo pronti”. Il tecnico pensò si trattasse del ciak e diede l’ok per lo scoppio della mina. Saltò tutto. Ma nessuna delle dieci macchine da presa sistemate per ogni dove aveva cominciato a girare. Milioni e milioni buttati. Qualcuno chiese: “A Se’ e mo’ che famo?”. E lui: “Famo pausa”.
Intepretare questo personaggio a cosa le è servito?
A niente, mai più fatto nemmeno un sergente, in Italia. E poi da molti anni recito soltanto in teatro, con la mia compagnia. Mi piacerebbe molto girare un film, anche come regista, ma se lo facessi venti persone rimarrebbero per strada. Angelo Musco quando girava un film faceva scritturare tutti gli attori della sua compagnia. Oggi non si può più fare.
Cosa l’aspetta a teatro?
A teatro la prossima stagione farò L’uomo, la bestia e la virtù di Pirandello. Io sono l’uomo, Adriano Pappalardo, il cantante, sarà la bestia e Pamela Prati la virtù. Voglio calcare il distacco ironico della pièce, per rispondere a chi crede che Pirandello,o Shakespeare siano dei mattoni.
Cosa ricorda degli ultimi film che ha interpretato, “Mi manda Picone”, “Mortacci” o “Scugnizzi”?
Poco o niente. Ma non è un atteggiamento, piuttosto la sindrome del voltare pagina. Un tempo sono stato attore per tutte le stagioni, ho recitato con Totò, per Steno. E non ho nessun rimpianto. Mai. Voglia di fare, forse. Ma con le persone è diverso. Ho incontrato prima Tonino Delli Colli. Non lo vedevo da allora. E mi è sembrato di averlo salutato ieri.
È contento di questo omaggio della Mostra?
Sono contento che questo festival abbia riscoperto Leone. Quello che rimprovero agli operatori culturali di questo paese è la scarsa memoria. Gassman per esempio, andava ricordato meglio. Sono stati dimenticati gli anniversari della scomparsa di Mozart, Schubert, Bach. La grandezza del cinema sta nel fatto che rimane nel tempo. Gloria a chi si occupa dei restauri.
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