Rieccoli i trentenni. Quelli che Muccino ha raccontato nell’Ultimo bacio, quelli che di fronte alla parola matrimonio sono presi da attacchi di panico, nevrosi e da un insopprimibile desiderio di fuga. Una sindrome che Alberto Taraglio racconta nel film con cui debutta alla regia: Amarsi può darsi, prodotto da Maurizio Tini per Sidecar Films, dal 30 marzo nelle sale. La coppia di eterni fidanzati, poi sposi e infine felici divorziati, è interpretata da Claudia Gerini e Claudio Santamaria.
Insomma, in questo periodo non si fa altro che parlare dei trentenni e delle loro paure di fronte agli impegni definitivi…
Io e Muccino abbiamo girato più o meno nello stesso periodo. Ma io non avevo intenzione di fare un film generazionale, piuttosto ho voluto raccontare il modo in cui gli uomini si autoassolvono quando finisce un grande amore. E poi il terrore del matrimonio è una storia vecchia quanto il mondo, non un fatto esclusivo dei giovani d’oggi”.
Come mai ha scelto di raccontare la storia come un sogno, con il protagonista che immagina il suo divorzio in stile processo all’americana?
Questa commedia si ispira a Il cielo può attendere, in cui il protagonista, davanti alla porta dell’inferno, faceva un bilancio del grande amore della sua vita. La stessa cosa avviene a Davide, che il giorno prima di andare dal giudice sogna il suo divorzio come un processo alla Perry Mason in cui vengono ricostruiti i suoi dieci anni d’amore.
C’è anche un po’ di cattiveria nel descrivere alcune costanti della vita dei trentenni di oggi?
Sicuramente. Le partite di calcetto, i mobili di Ikea, le vacanze in barca a vela e il conformismo coniugato con la voglia di ribellione sono tutti tratti importanti. Ho voluto raccontarli senza indulgenza o complicità, magari in modo cattivo, ma sempre per riderci sopra.
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