Quando la leggenda dei Beatles diventò un film

50 anni fa l’uscita di 'A Hard Day’s Night'. Senza questo demenziale hellzapoppin’ della Swinging London del 1964, la storica band forse non sarebbe entrata fin da subito nella leggenda


Sono passati 50 anni dall’apparizione di Tutti per uno, capolavoro assoluto che la polvere del tempo ha offuscato ma che invece ha la freschezza dell’appena ieri. Ci vuol pazienza però a cercare su internet il film di Richard Lester Tutti per uno: il record ricorrente preferisce indirizzarti verso la farsa di Giovanni Veronesi dedicata ai Tre Moschettieri. Con il titolo originale del film – A Hard Day’s Night – si approda più facilmente a una pellicola che ha fatto storia, ma che pochi mettono d’istinto nella storia del cinema o almeno nella hit parade dei musical più famosi di sempre. Eppure senza questo demenziale hellzapoppin’ della Swinging London (anno 1964), i Beatles forse non sarebbero entrati fin da subito nella leggenda.

I Fab Four stavano insieme da quattro anni: la loro avventura, partita dai quartieri popolari di Liverpool, stava per sbarcare in America con una tournée accuratamente preparata dalla United Artists. Ci voleva però un veicolo pubblicitario in più e il cinema sembrò la chiave giusta per aprire la cassaforte del pubblico giovane oltre oceano e alla United Artists di cinema se ne intendevano. Pensarono allora a Richard Lester, nato a Philadelphia nel 1932, una buona gavetta in tv, trasferitosi a Londra alla metà degli anni ’50 per la sua passione per il cinema inglese e con quattro film tra surrealismo e realismo underground alle spalle. Il suo nome figurava in una lista ristretta sottoposta al vaglio di John Lennon e compagni che già si potevano permettere di imporre le loro condizioni per debuttare sul grande schermo. Sembra che la decisione finale spettasse proprio a Lennon, che era un fan sfegatato dell’opera prima di Lester, The Running Jumping & Standing Still Film, scritto insieme a Peter Sellers nel 1959. Il regista accettò di buon grado la commessa ma affidò la sceneggiatura ad Alun Owen, uno scrittore gallese cresciuto a Liverpool con cui aveva lavorato per uno show alla BBC.

Il sodalizio con i Fab Four si cementò in alcune settimane di goliardica convivenza e alla fine, con un budget modesto (circa 6 milioni di euro), si arrivò sul set il 2 marzo del ’64 con gli ultimi ciak negli studi Ealing (i preferiti di Lester) alla fine di aprile. Dopo una proiezione privata al Pavilion Theatre di Londra alla presenza del cast e dei Beatles e alla vigilia del 24esimo compleanno di Ringo, A Hard Day’s Night uscì in prima mondiale il 7 luglio di 50 anni fa. “Durante il periodo di scrittura – ricorda Paul McCartney – Alun è rimasto sempre con noi ed è stato attento a metterci in bocca le parole che poteva averci sentito pronunciare, quindi ho pensato che avesse fatto un’ottima sceneggiatura”.

L’autentica trovata su cui si regge il film è il senso di costrizione e insofferenza della fama che faceva sentire i Fab Four già prigionieri del loro successo; la molla che fa scattare una serie di situazioni al limite dell’assurdo è quindi il desiderio di fuga, benché alla fine si arrivi alla registrazione di un previsto concerto negli studi televisivi come nel migliore dei “musicarelli”. Il controcanto comico è dato da una figura solo parzialmente inventata, quella del nonno irlandese di McCartney che si infila nelle situazioni più improbabili e distilla pillole di saggezza altrettanto improbabili. A quell’epoca – secondo Owen – la vita dei giovani musicisti assomigliava a “un treno e una stanza e un’auto e una stanza e una stanza e una stanza”. Una fotografia così azzeccata – ricorda sempre McCartney – che finì nel copione e viene pronunciata dal terribile nonnetto.

“L’intento del film – secondo Lester – era quello di presentare quello che stava diventando un fenomeno sociale in Gran Bretagna. Anarchia è una parola troppo forte, ma la qualità della fiducia che quei ragazzi emanavano! Era la sicurezza di potersi vestire come volevano, di poter parlare come volevano anche alla Regina, di poter parlare come volevano alle persone sul treno che ‘combattevano la guerra per loro’… Allora tutto in Inghilterra era ancora basato sul privilegio – privilegio di scolarizzazione, di nascita, accento, diritto di parola. I Beatles sono stati i primi ad attaccare tutto questo… hanno detto che se vuoi qualcosa puoi farlo. Dimentica – dicevano – tutti i discorsi sul talento, sull’abilità, sul denaro o sulla parola. Fallo e basta!”.

Non a caso la storia comincia su un treno, quello che deve portare quattro ragazzi poco più che ventenni da Liverpool a Londra dove gli altri passeggeri faticano ancora a distinguerli e finisce in un commissariato di polizia dove Ringo Starr verrà recuperato fortunosamente dagli amici pochi minuti prima dell’atteso concerto in tv. In mezzo c’è spazio per ogni tipo di equivoci, buffe fughe dai fan, corse in bicicletta e demenziali risposte ai giornalisti in una surreale conferenza stampa. Ogni occasione è buona per costruire l’iconografia del gruppo ribelle, per mostrare la vera anima dei protagonisti e per fotografare una Londra in piena trasformazione, anche se l’ossessione ricorrente è la camera d’albergo in cui i Beatles vengono rinchiusi in attesa del loro momento.

Il titolo originale di lavorazione doveva essere Beatlemania, ma sembrò da subito stupidamente agiografico. Pare che quello definitivo derivi da una strampalata battuta di Ringo Starr che amava raccontare come dopo un’estenuante giornata di prove, i quattro non smettessero più di suonare fino a notte alta. Girato in bianco e nero per ottenere quell’“effetto verità” mutuato dallo stile della Nouvelle Vague e del Free Cinema, A Hard Day’s Night ebbe un successo immediato e travolgente: la gente vedeva sullo schermo i propri idoli riportati alla normalità della vita, ma nello stesso tempo li guardava come campioni di una normalità “diversa” che segnava un’epoca nuova. Nessuna delle canzoni dell’album omonimo figura magari nel pantheon beatlesiano, ma l’effetto generale è quello di una freschezza che non soffre l’usura del tempo. Proprio come il film che ha segnato a sua volta un’epoca ed è diventato matrice stilistica per videoclip, pubblicità, il film-concerto, grazie al montaggio ritmato sulla musica, al continuo dentro e fuori esibizione, ai tagli apparentemente sgrammaticati di inquadratura in nome di una libertà espressiva in cui si respira l’odore della strada, il gusto dell’utopia, la libertà da ogni codice formale. Un anno dopo, forti di due nomination all’Oscar, regista e interpreti bissarono il successo con Help.

Uno spettatore attento potrebbe riconoscere in brevi istanti del film Phil Collins confuso nel pubblico del concerto oppure Charlotte Rampling ballerina al night, mentre i melomani potranno dire di aver riconosciuto lo stile del chitarrista Jimmy Page che fu ingaggiato come turnista per la colonna sonora. Ma la carriera di Richard Lester (impareggiabile artigiano della commedia surreale da Dolci vizi al foro a Come ho vinto la guerra fino a Petulia) ci riporta, per uno scherzo della rete, proprio all’inizio di questo viaggio: una decina d’anni dopo A Hard Day’s Night fu lui a dirigere la più riuscita, paradossale e goliardica versione dei Tre Moschettieri con Michael York, Raquel Welch, Oliver Reed, Richard Chamberlain, Faye Dunaway e perfino due leggende come Christopher Lee e Charlton Heston. Lo spirito dissacrante e inventivo era rimasto lo stesso e reclama oggi una schietta rivalutazione di questo regista errabondo e geniale.

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07 Luglio 2024

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