Iniziamo dalla fine: ovvero da quando l’arcigno Ebenezer Scrooge, ringalluzzito, rabbonito ed energizzato dall’aver scoperto che per la sua anima c’è ancora il tempo di salvarsi, si getta in pigiama per le strade innevate della “City” vittoriana, attaccandosi al retro di una carrozza per lasciarsi trascinare schettinando con le ciabatte, e offrendo a Robert Zemeckis l’occasione per una divertente autocitazione da Ritorno al futuro, film che l’ha consacrato come regista del fantastico per eccellenza, dotato di una capacità di trasmettere ‘sense of wonder’ pari solo a quella dell’amico e collega Steven Spielberg.
Lo ‘spoiler’ possiamo permettercelo, perché il ‘Canto di Natale’ (qui ribattezzato, un po’ autocelebrativamente, Disney’s A Christmas Carol) è una storia senza tempo, che tutti conosciamo. Un incubo ricorrente – ma a lieto fine – che abbiamo sognato più e più volte insieme al protagonista, e di cui conosciamo ormai ogni dettaglio, ogni risvolto, ogni inquietante particolare. E, con Scrooge, abbiamo acquisito e fatto nostro il messaggio finale di questa “parabola della buona morte”, che ci invita a mantenere i contatti con il sistema di relazioni e di affetti, perché chi muore solo e dimenticato è come se non avesse mai vissuto, ed è destinato a essere per l’eternità solo l’ombra, il fantasma di se stesso.
Proprio la Disney, che produce questo remake in 3D realizzato con la tecnica del ‘motion capture’ – personaggi digitali costruiti su espressioni e gesti di attori reali – ne aveva consegnato alla storia dell’animazione, negli anni ’80, una delle versioni più memorabili: quel Canto di Natale di Topolino dove i personaggi del dramma dickensiano erano “interpretati” dagli animali antropomorfi creati dallo Zio Walt, e dove Paperone, vestendo i panni dell’avaro protagonista, rendeva esplicita l’origine del suo nome anglofono (Uncle Scrooge, per l’appunto).
Ma si trattava pur sempre di un prodotto per ragazzi, e dunque le atmosfere erano addolcite, i toni smorzati per limitare gli aspetti macabri e spaventosi, il contesto storico appena accennato e traslitterato in una visione ‘fantasy’ che rendeva l’allegoria più universale ma anche meno concreta e viscerale.
Stavolta il boccone sarà più duro da mandare giù, specie per i più piccoli: questo ‘Canto’, coadiuvato anche dalle meraviglie della stereoscopia che pone letteralmente lo spettatore faccia a faccia con i “propri” fantasmi, fa davvero paura.
Basti dire che l’apertura – fedelmente all’originale letterario – è affidata al primo piano del cadavere di Jacob Marley, socio di Scrooge, morto stecchito con due monete infilate negli occhi.
Scrooge, interpretato da un espressivo Jim Carrey raggrinzito dal trucco digitale, non è soltanto un vecchio brontolone, ma un avvoltoio sgradevole e senza cuore, che senza mezze misure dichiara: “Se muoiono i bambini poveri è meglio, almeno così diminuisce la popolazione!”
La fotografia, scura come la pece, è in continua lotta con l’effetto tridimensionale: se da un lato lo valorizza – ad esempio quando l’ombra del Fantasma del Natale Futuro si materializza cercando di “afferrare” lo spettatore – dall’altro ne rende spesso difficile la percezione. La tensione, però, è garantita anche da questo evidente contrasto.
E quando la videocamera virtuale s’innalza sulla città imbiancata per una visione ‘a volo d’uccello’, con un effetto immaginifico da capogiro, vediamo sì le strade agghindate a festa, le luci e i colori tipici del Natale vittoriano, ma anche la miseria e la povertà nei volti scavati di bambini deturpati dalla fame e dal freddo, che si contendono con i cani un boccone di cibo.
“L’ho realizzato come secondo me l’avrebbe realizzato Dickens – dichiara il regista Zemeckis – è una storia che sembra nata per essere un film.”
L’affermazione è in parte vera: Zemeckis rende alla trama gli aspetti spettrali e orrifici che le sono propri – si tratta pur sempre di una ‘ghost story’ – e le restituisce inoltre la collocazione temporale: l’Inghilterra vittoriana, in cui nasce il Natale “consumista” moderno, in un’epoca di grande opulenza ma anche di enormi diseguaglianze sociali.
Da questo punto di vista, l’operazione è filologicamente più che corretta.
Ma la costante esigenza di trovare effetti che sfruttino al massimo la terza dimensione costringe la ‘fabula’ a qualche forzatura (per esempio il magico rimpicciolimento di Scrooge durante la visita del terzo fantasma), allontanando il film da Dickens e rendendolo accostabile, a tratti, a una giostra mirabolante, dove la narrazione passa in secondo piano in favore della “vertigine”.
Le nuove tecnologie sono senz’altro spremute a dovere: oltre al 3D c’è la possibilità di usare facilmente un attore per più ruoli.
Lo stesso Carrey, oltre al protagonista, interpreta tutti gli Spiriti. Una scelta che, oltre ad esaltare la bravura camaleontica dell’interprete, affonda le radici negli aspetti psicologici del plot, dato che gli spettri sono tutte emanazioni del senso di colpa del vecchio spilorcio.
Anche l’altro grande trasformista Gary Oldman si cala in più panni: sue le movenze, oltre che dell’impiegato Bob Cratchit, vessato da Scrooge, anche dello spirito di Marley e del piccolo Tim, figlio storpio di Cratchit destinato a una triste fine.
Nel cast ci sono inoltre Colin Firth, Bob Hoskins e la bella – anche in versione “digitalizzata” – Robin Wright Penn.
Il film esce in sala il 3 dicembre e vede la partecipazione del tenore Andrea Bocelli per l’adattamento del tema principale della colonna sonora, che in italiano si chiama Dio ci benedirà .
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