Cosa fa di una grande star un mito? Nell’era di Jessica Chastain e di Margot Robbie è legittimo domandarsi perché suoni strano definirle “mitiche” o perché – anche qui a fatica – la definizione possa essere scomodata per Robert De Niro, ma non si adatti certo a Brad Pitt o all’ormai maturo George Clooney. Possono essere sex symbol, possono riempire di poster le camere degli adolescenti, ma per la categoria “mitica” arrancano senza successo.
Il tema torna d’attualità nei giorni in cui il mondo del cinema festeggia gli 80 anni di Catherine Deneuve, al secolo Catherine Fabienne Dorléac, nata a Parigi il 22 ottobre 1943. La definiamo “mitica”, come ad esempio Greta Garbo, perché certamente Deneuve è vista come Divina, collocata in un empireo che ne fa l’autentica “diva” vivente del cinema europeo, al pari di Sophia Loren e forse nessun’altra.
La categoria fu inventata dal marketing della settima arte fin dai primordi, al tempo di Francesca Bertini (in Italia) o di Theda Bara (in America). Ma proprio gli americani costruirono la mitologia del cinema attingendo a figure che venivano dall’Europa quando capirono che il pubblico cercava l’esotismo della divinità, caratteristiche negate in patria perfino a grandi figure come Lilian Gish.
Cosa serve per costruire questo modello? Essenzialmente la singolarità, l’esotismo, l’irraggiungibilità, un fascino misto di attrazione e timore. Ovviamene partendo da una base di bellezza distante e intrigante. Non a caso Theda Bara costruì la sua immagine (come Louise Brooks) partendo dalla personificazione della vamp. E lo stesso destino toccò più tardi a Marlene Dietrich.
Garbo e Dietrich sono le due categorie tra le quali destreggiarsi alla ricerca del mito. La prima è una bellezza algida, distante, suggestiva perché diversa da ogni modello americano (sia come regina del cinema muto, che quando comincia a parlare), proprio per il suo accento e l’inviolabilità della sua vita personale. Dietrich invece ha le stesse caratteristiche (bella, esotica, distante), ma apporta quel grado di pericolo e peccaminosa sensualità che darà la stura alle Dark Ladies di tutto il cinema noir e che si porta appresso fin dall’apparizione ne L’angelo azzurro, girato in Germania.
Garbo è un’inviolabile regina, una dea come Athena; Marlene Afrodite, pericolosa figlia dei suoi tempi, una tentatrice che si insinua nell’inconscio suscitando il fascino della seduzione. Anche per lei la vita privata resta un tabù appena scalfito dal gossip che accresce comunque il suo fascino di maliarda. In comune le due dive hanno un’androginia per quei tempi inquietante e incarnano il desiderio irraggiungibile. Hollywood tenterà di replicare questo schema all’infinito, almeno fin quando il nome dell’interprete sarà più importante di quello del regista.
Rispetto a quest’idea di star system, la carriera di Catherine Deneuve (figlia di attori e doppiatori molto stimati nella Parigi dell’immediato dopoguerra) costituisce uno scarto importante, ma capace di produrre lo stesso risultato. Saranno i suoi amori proibiti (prima Roger Vadim con cui va a vivere giovanissima, poi il suo solo marito Robert Nailey, fotografo che si porta Mick Jagger come testimone alle nozze, poi una sequela importante di storie da set, tra Roman Polanski, François Truffaut, Gérard Depardieu, ma soprattutto Marcello Mastroianni), la sua indipendenza nello scegliere partner e produttori, la sua versatilità d’attrice, la sua irraggiungibilità e sensualità indefinibile, a farne la Diva che conosciamo dagli anni ’60.
Catherine scopre il cinema suo malgrado, prima indotta dal padre a doppiare le bimbe prodigio di Hollywood, poi trascinata sul set dalla sorella maggiore Françoise Dorléac che per un breve tempo (morirà in un incidente d’auto nel 1967) sembra l’attrice rivelazione di una generazione nuova, insieme ninfetta ingenua e donna spregiudicata. A fare di Catherine un personaggio popolare è Jacques Démy tra Les parapluies de Cherbourg (1964) e Les demoiselles de Rochefort (’67). A fare di lei una Diva inquietante sono Roman Polansky (la vergine assassina di “Repulsion”) e Luis Buñuel (l’annoiata ragazza dalla doppia vita in Bella di giorno), realizzati quasi contemporaneamente ai film del suo pigmalione Démy.
Negli anni Deneuve ha molto dovuto parlare di sé: per accompagnare le interpretazioni che sentiva sue, per incoraggiare giovani registi, per difendersi dal pettegolezzo, ma avrebbe sempre preferito nascondersi dietro la cortina inavvicinabile dello schermo. Prova ne sia che solo nella piena maturità ha accettato – pur senza felicità – la sfida del teatro e il contatto diretto con il suo pubblico. Ma ha sentito il mutare dei tempi e la necessità di dare un senso nuovo all’accezione del divismo. Così si è costruita una torre d’avorio che a volte suonava perfino arrogante, ma che la rendeva unica anche quando si trattava di difendere le sue scelte private e pubbliche.
Ha rovesciato il cliché della Diva mantenendone intatti i principi fondamentali: bellezza, distanza, fuoco sotterraneo e freddezza esteriore. Per questo Alfred Hitchcock ha sognato (e lei con lui) di farne la sua interprete ideale dopo Ingrid Bergman e Grace Kelly.
Pensate alla Tristana dal doppio volto del film omonimo di Buñuel: prima vergine indifesa costretta a scoprire la morbosità di Don Lope; poi spietata carnefice del suo anziano tutore/marito e oggetto sensuale nonostante la gamba di legno e gli abiti neri della Spagna franchista. Fin da allora, 1970, Catherine Deneuve diventa musa intellettuale e sofisticata maliarda del suo tempo.
L’esatto contrario delle altre dive contemporanee (tra Ingrid Bergman sempre più attratta da una dimensione “umanizzata” e Sophia Loren, simbolo opposto di madre mediterranea che diventa regina intoccabile), donna moderna che tiene in mano il suo destino.
Per questo, come Garbo tanti anni prima –“Garbo laughs” –, arrivata al vertice della carriera osa rovesciare la sua immagine, si tuffa nella commedia, declina in modo moderno la sua irraggiungibilità. La ragazza bruna che sullo schermo è sempre stata biondo-platino (“gli uomini preferiscono le bionde…ma sposano le brune”), la donna che ha avuto molti amori ma è rimasta sempre vergine guerriera e solitaria, la capitana d’industria che da produttrice diventa un’icona dei giovani cineasti indipendenti, ha potuto allora restare diva mentre gettava alle ortiche il suo passato.
Fino all’ictus del 2019 ha fumato “come un pompiere”, ha schivato le lusinghe di Hollywood, si è fatta beffe delle convenzioni (il suo attacco agli eccessi del “Me Too”), ha difeso i suoi uomini (Polanski) e gli artisti (Woody Allen), si è fatta camaleontica nella scelta dei ruoli. Eppure è rimasta regina, sempre e comunque. Nell’era delle attrici di oggi, arrivata a 80 anni, ha scelto di diventare “normale” come loro. Eppure resta un mito.
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