’55 giorni a Pechino’, storia di un flop e di due geni della truffa

Il 3 ottobre del 1963 esce un kolossal degno dei fasti della Hollywood sul Tevere. Si intitola 55 giorni a Pechino, porta la firma di Nicholas Ray ed è ispirato a una storia vera che odora di esotismo


Il 3 ottobre del 1963 esce un kolossal degno dei fasti della Hollywood sul Tevere. Si intitola 55 giorni a Pechino, porta la firma di Nicholas Ray ed è ispirato a una storia vera che odora di esotismo, colonialismo, eroismo. Sarà un flop micidiale come due anni prima El Cid e, un anno dopo, La caduta dell’impero romano.

In comune i tre “filmoni storici£ hanno un produttore, Samuel Bronston, un set in Spagna, un mediatore degno di iscriversi nella storia segreta del cinema, il polacco Michał Waszyński.

Della trilogia, 55 giorni a Pechino è senz’altro il gioiello più raro, un mito dimenticato. Lo spunto del film è un romanzetto di Samuel Edwards sulla rivolta dei Boxer a Pechino nel 1900. Si tratta di una vicenda che ricorda fin troppo da vicino il modus operandi attuale delle grandi potenze dalla Guerra del Golfo all’Iraq e oltre. Alla fine dell’800 gli occidentali si insediano in Cina mirando alle sue miniere e agli affari legati alla modernizzazione del paese, accettata senza entusiasmo dalla Dinastia Imperiale Manciù. In particolare sono i missionari cristiani e gli affaristi delle ferrovie a suscitare la reazione del popolo per arroganza e avidità. Da qui nasce, nel 1899, un moto nazionalista e anti-imperialista che si coagula intorno alle scuole del kung fu e alle sette tradizionaliste, si nutre del favore dei contadini e dei lavoranti scacciati dalle compagnie europee ed è segretamente appoggiato dall’imperatrice Cixi. L’uccisione di un missionario e poi quella di un funzionario tedesco sarà la miccia che farà sbarcare un primo contingente militare europeo e americano nella primavera del 1900.

L’uccisione di un Boxer (chiamato così dalla tradizione pugilistica del kung-fu) in piena Pechino fa divampare l’incendio. L’imperatrice dichiara guerra agli occidentali, i boxer mettono sotto assedio le ambasciate (legazioni) con l’aiuto dell’esercito, gli assediati rispondono con un corpo di spedizione che libererà i diplomatici dopo 55 giorni, mettendo a ferro e fuoco la città e costringendo Cixi alla fuga. Dei massacri, degli stupri, del sacco compiuto dai “liberatori” non c’è traccia nella versione romanzata a cui attinge il produttore Samuel Bronston.

Dopo il disastro di El Cid la star sotto contratto, Charlton Heston, si è sfilato dal progetto de La caduta dell’impero romano. Durante un viaggio in aereo, Bronston gli racconta l’idea di un kolossal alternativo e ne ottiene la disponibilità. Il peplum previsto viene messo in attesa, a tempo di record si smontano le scenografie romane rimpiazzandole con quelle cinesi negli studios madrileni di Bronston e l’italiano Veniero Colasanti fa miracoli per reinventare la Cina al sole di Spagna. Della trama di 55 giorni a Pechino poco importa visto che segue tutti gli schemi prestabiliti, sul modello di Alamo sia pure con un finale diverso. Colpisce di più un cast “all stars” che intorno a Charlton Heston, il marine che guida alla vittoria, riunisce un vero planetario internazionale: David Niven difende la Corona inglese, Ava Gardner seduce impellicciata da baronessa russa, Dame Flora Robson sfrutta i suoi occhi a mandorla per mimetizzarsi sotto il trucco pesante dell’imperatrice cinese, Massimo Serato si pavoneggia nei panni di Garibaldi (!). E con loro John Ireland, Leo Genn, Philippe Leroy, Fernando Sancho, il campione di arti marziali Yuen Siu Tien, il regista nipponico Jūzō Itami e perfino lo stesso Nick Ray. Le musiche sono di Dimitri Tiomkin che per questa colonna sonora si guadagna due nomination all’Oscar e che con Bronston ha un patto di fedeltà etnica.

L’origine dei nostri protagonisti è infatti la chiave di volta di questa storia: Tiomkin viene da una famiglia russo-ucraina naturalizzata; Bronston in realtà si chiama Schmul (Samuil) Bronschtein, viene dalla Bessarabia ed è nipote di Trotsky. Più defilato è il terzo attore della vicenda. Ma forse senza Michał Waszyński questa incredibile storia non sarebbe esistita.

Nato a Kowell, cittadina ucraino-polacca che nel 1904 faceva parte dell’impero russo, di origine ebraica come Bronston, fin da ragazzo avvolge la sua biografia nel mistero, spacciandosi per assistente di Murnau e del suo mentore polacco Wiktor Biegański, approda alla regia nel ’29 e si segnala per il feroce commento di una diva nazionale dell’epoca: “Perché un film venga considerato artistico, basta non affidarlo alle cure di Waszyński”. Che però riesce comunque a dirigerne 40 (tra cui uno famoso, Der Dybbuk) prima dello scoppio della guerra, dando spesso scandalo per la sua dichiarata omosessualità e per la passione del lusso eccentrico. Dopo un altro periodo “oscuro” (dichiara di essere stato internato ad Auschwitz, ma pare non sia vero) riemerge in Italia nel 1946, sposa la contessa Maria Dolores Carancini che lo lascerà ben presto vedovo, ma con una confortevole eredità e il suo palazzo a Roma che presto si trasforma in un polo alla moda della capitale. Vi transita, tra l’altro Orson Welles che qui troverà sostegno e aiuto per il suo Otello. Grazie a Vittorio Cottafavi, Waszynwski dirige altri tre film tra cui Lo sconosciuto di San Marino, ma la frequentazione dei salotti romani lo aiuta ad entrare in contatto con Bronston di cui diviene il braccio destro. Nonostante le arie da playboy trasgressivo del polacco e il piglio da tycoon dell’americano, i due insieme sembrano Totò e Peppino e fanno a gara a chi vende meglio la Fontana di Trevi. Che nel loro caso sono gli studi madrileni che Bronston ha ottenuto col favore di Francisco Franco e che Waszynski aiuta a foraggiare con ingenui investitori. Quando anche La caduta dell’impero romano sarà un bagno di sangue i due scompaiono, lasciando i creditori con un palmo di mano. Bronston affronterà un  processo per bancarotta in patria con una sentenza che farà epoca (la userà anche Bill Clinton per scagionarsi nell’affaire Levinsky); Waszynski era già morto, a soli 60 anni, a Madrid per attacco cardiaco e oggi riposa al cimitero di Prima Porta. Mistero nel mistero, la tomba è quella della famiglia Dickman, gentiluomo di corte caro alla Regina Elisabetta.

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23 Luglio 2023

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