Se Dunkirk di Christopher Nolan riscriveva il modo di raccontare la seconda guerra mondiale con una battaglia contro il tempo – e un atto di eroismo collettivo che coinvolgeva un’intera nazione – per liberare l’esercito britannico bloccato su una spiaggia della Normandia, 1917 di Sam Mendes fa della corsa contro il tempo la sua ragion d’essere in un film che è pura durata nel suo farsi, con la pretesa del tempo reale – ma 8 ore sono concentrate in 120 minuti – e un falso piano sequenza che in realtà è collage di più sequenze.
Il paradosso generativo è che qui siamo nella prima guerra mondiale, guerra di trincea e di postazione per eccellenza, come abbiamo appreso ad esempio dal capolavoro di Ermanno Olmi Torneranno i prati. Sul fronte occidentale il 6 aprile del penultimo anno di conflitto, due caporali britannici, Blake e Schofield, mentre sono stesi a riposare sotto un albero, ricevono l’ordine di partire per una missione suicida. Dovranno attraversare le linee nemiche e consegnare un messaggio che potrebbe salvare la vita di 1.600 uomini che stanno per cadere nella trappola dei tedeschi. Blake è stato scelto non a caso dal generale Erinmore (Colin Firth) perché tra quegli uomini c’è suo fratello. Il tempo è pochissimo – all’alba sarà sferrato l’attacco – ma Blake è determinato ad arrivare a destinazione. Un’impresa, uguale e opposta a quella spielberghiana di Salvate il soldato Ryan, che porta i due giovani amici prima nella no man’s land, quindi nelle trincee abbandonate dai tedeschi, e poi sempre più soli, tra fattorie disabitate e ruderi di ponti crollati e di città distrutte, tra cadaveri di cavalli e di vacche, alberi recisi, aerei nemici in picchiata.
Un percorso accidentato e infido che lo spettatore percorre con loro, con una macchina da presa sempre incollata e in movimento: perché indietro non si torna. Sam Mendes racconta di aver trovato ispirazione per questo film scritto insieme a Krysty Wilson-Cairns, dai racconti di suo nonno, staffetta sul fronte occidentale in virtù della sua piccola statura. Da questo primo spunto è stata sviluppata una sceneggiatura lineare che tuttavia contiene una sfida registica incredibile (e anche fotografica, affidata al premio Oscar Roger Deakins), quella di dare un ritmo avvincente alla guerra di trincea e di offrire la visione della pura bellezza dell’orrore. Il senso di minaccia costante accompagna una recitazione sostanzialmente teatrale, il piano sequenza è raccordato con stratagemmi come il passaggio dietro un albero o una dissolvenza al nero per passare dal giorno alla notte. Eppure in questo moto incessante non mancano i momenti di lirismo, come l’arrivo alla fattoria con i ciliegi in fiore o il battaglione che, in attesa dello scontro, ascolta un soldato intonare una languida melodia.
Non dimentichiamo che Mendes è autore oltre che di American Beauty ed Era mio padre, di due Bond (Skyfall e Spectre), e padroneggia la macchina cinema (vedi l’intervista sul set) sapendo rendere l’esperienza della visione totalmente immersiva. La fisicità del set ci viene restituita in toto: il fango, il sangue, l’odore della decomposizione, le voragini dei crateri di esplosioni continue, i ratti che popolano le gallerie sotterranee, la città fantasma di Ecoust, dove avviene l’incontro con l’unico personaggio femminile. I due ragazzi si scoprono legati per la vita e nella morte, animati da una volontà di farcela che va oltre ogni logica, sospesi tra consapevolezza e incoscienza. Sono due ventenni di allora e potrebbero essere due ventenni di oggi, magari affascinati da questo videogioco di elevata raffinatezza visiva e concettuale. Mendes ha volutamente scelto due attori quasi sconosciuti: George MacKay (Schofield) e Dean-Charles Chapman (Blake) in cui tutti possano riflettersi.
La parola finale al colonnello Mackenzie (Benedict Cumberbatch), il destinatario del messaggio di Schofield e Blake: “C’è un solo modo di finire questa guerra: last man standing”.
Dal 23 gennaio al cinema con 01 Distribution, 1917 ha vinto 2 Golden Globe e ha 10 candidature all’Oscar.
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