“Dopo aver raccontato il pregiudizio sull’omosessualità con il primo film e la differenza razziale col secondo, cercavo cose nuove di cui parlare, e ho preso spunto dal fatto di essere diventato padre”. E così Checco Zalone, che ha alle spalle le performance eccezionali al box office di Cado dalle nubi (oltre 15 milioni) e di Che bella giornata (più di 45), si presenta il 31 ottobre, con Medusa, in più di 1.200 sale con Sole a catinelle, con un’ansia da flop in parte mitigata dalla reazione dei giornalisti in sala. “Ho sentito risate e applausi dalla peggiore categoria che esista – scherza a margine della conferenza stampa – e questo mi conforta un po’”.
In questa storia il fenomeno barese, un venditore di aspirapolveri col mito del denaro, dopo la separazione dalla moglie si trova costretto a mantenere la promessa che aveva fatto al figlio: portarlo a fare una splendida vacanza se avesse preso tutti ’10’ in pagella. Purtroppo per lui (e al contrario di lui), suo figlio (Robert Dancs) è un piccolo genio e lui, senza un soldo, per rimediare proverà a portarlo al paesotto in Molise. Un luogo da cui però entrambi vogliono fuggire subito – “Spero di poter tornare in quella splendida regione dopo il film”, ironizza Zalone – per poi ritrovarsi per caso a trascorrere un’estate di lusso in mezzo ai miliardari.
A caldo, qualcuno ha “accusato” il comico di aver spruzzato un po’ di buonismo nella cattiveria politicamente scorretta del passato, ma in realtà Zalone ne ha per tutti: per gli industriali che fanno giochetti finanziari invece di produrre, per il teatrino dei capitani d’azienda che parlano di occupazione dai loro yacht a Portofino, per lo yoga e il veganesimo, per un certo cinema d’autore, per la tirchieria estrema di alcuni personaggi della provincia profonda, per gli psicologi e per i comunisti, ma forse soprattutto per i radical chic che raccolgono fondi per i bambini africani mentre s’ingozzano di aragosta e fanno scorrere champagne a fiumi. La sua chiave di accesso al mondo dei ricchi, nel film è rappresentata dalla francese Aurore Erguy, mentre la moglie che rimane a casa a combattere per il suo posto di lavoro è l’esordiente Miriam Dalmazio.
In questo caso, però, il Sole a catinelle illumina appunto anche un rapporto padre-figlio, dove Checco è “il prodotto di 20 anni di berlusconismo, che ha creduto nella logica dei finanziamenti e nell’ottimismo anche mentre stava nella merda” e il figlio è un ragazzino che evita in extremis il logopedista che, secondo il padre, avrebbe corretto il suo vizio di non dire parolacce. “Io al mio protagonista voglio bene anche se è stupidino e ha creduto nell’idea di fare i soldi indebitandosi. Il tutto a prescindere dall’intento ideologico, che infatti non c’è: l’unica idea alla base di questo film è fare soldi”, dice ridendo Checco.
Ma il suo regista e co-sceneggiatore Gennaro Nunziante s’innervosisce un po’ quando qualcuno pronuncia la parola ‘trash’: “Non è mai esistito nei nostri film. Per noi è volgare ciò che è goffo, la comicità e temi scontati con lui, lei, l’amante e il sesso: un mondo narrativo logoro che teniamo distante perché volgare. E questa non è una commedia buonista, se pensate ad esempio che il padre indica al figlio uno yacht lussuosissimo come simbolo della felicità”.
Il produttore Pietro Valsecchi, abituato agli incassi stratosferici anche con I soliti idioti, intanto, rivela di aver scommesso con Checco sul risultato di Sole a catinelle: “Se perde mi paga una cena in un posto splendido, se perdo io gli pago una vacanza in un luogo meraviglioso. Per ora sappiamo che gli esercenti ci credono e noi ci crediamo, e che non è una stagione meravigliosa per il cinema”. In effetti la crisi morde, e d’altronde è anch’essa uno dei temi al centro del film ma, conclude Zalone, “Abbiamo provato a ridere della crisi anche se sappiamo che è difficile. Alla fine, comunque, un film non è un’analisi fenomenologica, è solo un film. E ci piaceva che il nostro protagonista non avvertisse la crisi. Vediamo ora che ne penserà il pubblico”.
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