Il regista inglese Michael Winterbottom è autore di Shoshana, thriller politico ambientato nella Tel Aviv degli Anni ’30, ispirato a eventi realmente accaduti: presentato al Toronto Film Festival, aveva aperto il Festival del Cinema Europeo di Lecce 2023 e ora esce nelle sale con Vision Distribution, dal 27 giugno.
Verso la fine del primo ventennio del Novecento, 100mila ebrei arrivarono in Palestina: “mia madre, io e mio fratello David eravamo tra loro”, narra la voce, di cui scopriamo anche il volto (l’attrice Irina Starshenbaum), che introduce il racconto dapprima dal tratto storico, con immagini d’archivio in bianco e nero, che cristallizzano il momento. “Gli arabi si ribellarono, a Hebron più di 60 ebrei furono uccisi, fu orribile. La risposta britannica si determinò nell’invio di 500 nuove reclute alla polizia palestinese … nel 1935 arrivarono 60mila nuovi immigrati ebrei, all’epoca eravamo mezzo milione in Palestina. La rivolta araba ebbe inizio”.
In questo clima, però, la maggior parte degli ebrei aveva “una mentalità aperta, moderna, libera”, continua a raccontare la voce di Shoshana, da qui il titolo del film, mentre lei, nella storia, comincia la sua frequentazione con Tom (Douglas Booth).
Shoshana è un progetto che nasce 15 anni fa, dalla lettura di One Palestine, Complete di Tom Segev, racconta Winterbottom, incontrato in occasione dell’anteprima italiana a Lecce lo scorso 11 novembre (agli sgoccioli di quella che era la prima data annunciata di distribuzione, prevista per il 16 novembre 2023).
Winterbottom, il suo film racconta di quanto gli estremismi politici possano inficiare le relazioni umane: è questo il punto dal quale è partito, che le interessava arrivasse del film?
Quando il film è stato completato probabilmente era così, ma originariamente il mio obiettivo era semplicemente raccontare di un periodo della Gran Bretagna non particolarmente noto agli stessi britannici, di cui avevo letto nel libro. Il punto di partenza non è stato quello della relazione, ma piuttosto capire se si potesse raccontare una storia a partire da questo periodo; era, appunto, il momento in cui la GB occupava il territorio della Palestina e questo volevamo raccontare. Poi abbiamo trovato la storia di Shoshana e Tom e, riducendo all’osso, si tratta di una storia d’amore tra due persone, e di come la storia possa essere inficiata da una più grande questione politica.
Questa storia d’amore assume un significato molto forte, vista l’attualità dei fatti in Israele. Come si pone il film rispetto alla situazione attuale? Fa paura a qualcuno questa storia, considerando lo slittamento dell’uscita italiana?
Non credo si tratti di preveggenza, anche perché la genesi del film risale a 15 anni fa. Il film racconta una storia vera, di ciò che è accaduto nel 1938 e fino al ’42 in Palestina, e quando si fa un film su una storia vera, su un determinato periodo, un determinato luogo, su determinate persone, la cosa fondamentale è rendere giustizia a tutto questo, raccontando ciò che è accaduto realmente, non commentando la situazione odierna. È necessario rispettare quei luoghi e quel tempo raccontati e non sfruttarli per elaborare un commento sulla situazione attuale. Per fare un esempio, una delle cose più interessanti della Tel Aviv rappresentata nel film è proprio che all’epoca fosse una delle città più a Sinistra che si potessero trovare, per un forte senso di uguaglianza, in cui le donne avevano una forte preponderanza: c’era grande parità, le donne si potevano anche arruolare a livello militare, per cui c’era solo una sparuta minoranza orientata a Destra e che sosteneva delle ideologie, quindi c’era uno scambio tra Destra e Sinistra nell’Israele dell’epoca, che non è quello attuale; il dibattito tra Destra e Sinistra è completamente cambiato nei tempi moderni. Quando abbiamo presentato il film a Toronto per la prima assoluta, qual è stata l’eco maggiore? Il riverbero è stato sullo scontro ideologico tra Destra e Sinistra, quindi è chiaro che quando si racconta di un tempo e un luogo determinati si racconti dalla prospettiva in cui ci si trova, quindi quella odierna, ma quello che non si può prevedere è l’eco degli eventi che si vanno a raccontare nei momenti successivi. Il film cerca di mostrare come la violenza politica venga usata per obbligare le persone ad allontanarsi tra di loro e dalla prospettiva di trovare una soluzione politica, venendo così polarizzate: o sei a favore o contro una certa ideologia. La distruzione e la violenza di questo periodo creano una connessione inevitabile con il film, ma alla fine il mio obiettivo era raccontare cosa sia la violenza politica in generale, nel senso che l’eco che si ha in Israele è la stessa che si può avere in tanti altri Paesi, perché la violenza politica porta a una polarizzazione.
Quanto pensa che i fatti dell’attualità recente possano influire nella distribuzione del film?
È stata rinviata l’uscita in Israele. In Italia è stata posticipata, lo sapete. Sicuramente questo periodo desta grande preoccupazione, credo la popolazione sia molto attenta a ciò che sta accadendo a Gaza e nel territorio israelo-palestinese, parliamo di un momento terribile, di guerra, di morte: il giorno della prima del film a Londra è stato il giorno in cui è accaduto tutto, in cui c’è stato l’attacco di Hamas; ricordo ci fosse la parte di cast israeliano attaccata al telefono nella speranza di capire cosa stesse succedendo; e ricordo il pubblico presente, un pubblico prevalentemente israeliano, di religione ebraica: in quel momento non era chiara la portata di quello che stesse accadendo, ma si capiva che la situazione fosse molto difficile da gestire. Quando il film è stato mostrato il pubblico non si è opposto, probabilmente ha colto il fatto che le vicende raccontate, alla luce di quello che stava accadendo, rendessero il film ancor più rilevante, ancor più pertinente.
Shoshana è un bellissimo personaggio femminile, come altri che ha costruito nei suoi film, pensiamo a quello di Samantha Morton in Codice 46: qual è il suo segreto per questi profili? È cresciuto circondato da donne?
Mia mamma era bella forte! La caratteristica di Shoshana è proprio questa, è la parte forte della relazione: allo spettatore non verrà mai in mente di domandarsi se lei seguirà Tom in Inghilterra; piuttosto la domanda è se Tom rimarrà per stare con lei: la seguirà? Credo Tom ami Shoshana non solo per gli stilemi della storia d’amore ma ne ami la forza, il suo interesse politico, la sua indipendenza, il fatto che vada da sola per la strada e non abbia paura di imbracciare un’arma se necessario, e ama il mondo della Tel Aviv moderna e cosmopolita in cui lei si trova, una città dove le persone si incontrano e sviluppano idee e si impegnano per poter arrivare a quello che è il loro obiettivo da un punto di vista politico; credo sia questo che faccia innamorare così tanto di lei.
Il titolo, Shoshana, sembra voler dare centralità al personaggio femminile, mentre nel film non avviene, perché lei appartiene a una narrazione molto più ampia. Lo spettatore non potrebbe essere depistato?
Shoshana apre il film e lo chiude: il suo percorso resta per me l’elemento centrale di tutta la storia. Lei inizia il percorso, come suo padre, credendo nella possibilità che gli arabi e gli israeliani possano vivere insieme, prendendo le distanze dal fascismo estremista: lei crede nella potenza del dialogo, crede sia possibile una soluzione politica che permetta la convivenza. All’epoca la gran parte degli arabi e degli israeliani entrava in contatto diretto col governo britannico, cercava di trovare una soluzione: ovviamente la Gran Bretagna era la potenza occupante, però si cercava una sorta di soluzione per permettere una convivenza pacifica, si cercava il dialogo. Cosa accade, però? Shoshana alla fine non è più col suo amore, e decide di combattere i britannici e gli arabi, quindi il suo percorso resta il punto centrale del film ed era quello che volevo raccontare, non perché lei sia cambiata ma perché la situazione è stata cambiata dalla violenza.
L’impressione è che gli inglese fossero incerti, quasi smarriti sul da farsi: era questa la loro posizione, quello che lei voleva mostrare?
Quando i soldati britannici sono arrivati nel territorio lo hanno conquistato, siamo nella Prima Guerra Mondiale: forse, noi e i francesi pensavamo di avere il diritto di poter dire al Medio Oriente cosa dovesse fare e come si dovesse comportare; nella fattispecie, la Gran Bretagna arriva in Palestina e la conquista. La GB comincia a fare promesse, da una parte e dall’altra: alla popolazione araba dice ‘sì, avrete il vostro Paese’, stessa cosa alla popolazione israeliana; asseconda il nazionalismo dell’uno e dell’altro gruppo, ma la verità – a conti fatti – è che non sapesse come gestire la situazione. Nel libro che ho letto e che ha fatto partire il film ci sono un sacco di commenti di ufficiali britannici dell’epoca, che si dicevano fra di loro: ‘cosa stiamo facendo? Quali soluzioni possiamo trovare?’. Io ci ho visto subito il parallelismo tra la Gran Bretagna dell’epoca e l’America dell’invasione in Iraq: arrivo, bombardo, faccio saltar tutto in aria e dopo? Gli inglesi non sapevano esattamente cosa fare e poi, come sempre fanno le potenze coloniali quando arrivano in un posto e pretendono di dire alle persone come comportarsi, hanno fatto un caos.
Nel film sono presenti immagini d’archivio: si tratta di cinema del reale originale o sono ricostruite? Perché ne ha sentito necessario l’utilizzo per questa storia?
Il materiale d’archivio è molto interessante, l’ho voluto inserire ed è tutto originale: è reale e proviene sia dagli Home Movies, immagini girate dalla comunità ebraica dell’epoca, sia da materiale di origine britannica, essendo il territorio occupato da questa forza militare, e questo veniva documentato. Ne avevo bisogno? Non lo so ma mi piaceva moltissimo utilizzarlo anche perché ci sono varie ragioni: la prima è di tipo pratico, ovvero le immagini d’archivio ci hanno permesso di non ricreare scene che non avremmo potuto realizzare, di mostrare – per esempio – 10mila soldati che marciavano nel deserto per arrivare a Gaza; poi, in generale, io non faccio film d’epoca ma mi piace molto di più prendere la telecamera e focalizzarmi su tre/quattro personaggi e capire in che modo si inseriscano nel mondo, ci permette di capirli meglio; i materiali d’archivio mostrano il mondo reale nel momento in cui i personaggi agiscono; e poi c’è una ragione egoistica, personale: le immagini d’archivio di Tel Aviv sono molto simili alla Tel Aviv poi ricostruita per il film, quindi era un modo per tranquillizzare lo spettatore, come a provare la fedeltà.
Qual è il suo rapporto col genere cinematografico: qui utilizza sia il thriller che il film storico?
Mi piacerebbe poter dire che il mio film sia afferente a un unico genere o che la mia scelta sia deliberata, ma la verità è che io voglio raccontare una storia, il mio punto di partenza è questo; ovviamente ci sono caratteristiche tipiche di un genere – vediamo bombardamenti o vediamo omicidi, tipici di certi generi – ma per me il punto focale resta raccontare una storia, che poi questa si inserisca nel genere non è rilevante.
Questo film, come altri suoi, è connesso alla realtà e alla politica: la responsabilizza come regista?
Quando si approccia una persona come Shoshana si è difronte all’opportunità di raccontare la Storia dal suo punto di vista, prendere la prospettiva e raccontarla: un regista da una parte deve comprendere quel punto di vista per raccontarlo e deve farlo nel modo più semplice possibile, perché solo così riuscirà a partire dalla prospettiva delle storie che sta raccontando. L’obiettivo del regista è immergersi e raccontare quel punto di vista e da qui partono tutte le storie che io ho raccontato, cercando di comprendere tutte le situazioni, raccogliendo le esperienze, condensandole all’interno di un prodotto filmico, ma per farlo è necessario essere quanto più onesti possibile, quanto più semplici possibili.
Candidato per la Palma d’oro al Festival di Cannes per tre volte, con i film Benvenuti a Sarajevo, Wonderland e 24 Hour Party People, Michael Winterbottom ha vinto l’Orso d’oro al Festival di Berlino 2003 con Cose di questo mondo. Sempre al Festival tedesco, nell’edizione 2006, è stato premiato con l’Orso d’argento per la Miglior Regia di The Road to Guantanamo.
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